I paesi più poveri rischiano il collasso senza le rimesse degli emigrati
Per ora l’impatto sanitario del nuovo coronavirus sull’Africa è stato relativamente contenuto, quello economico invece rischia di essere estremamente pesante. I dati diffusi in queste settimane dalla Banca mondiale – organismo che si occupa di sostegno allo sviluppo attraverso prestiti con interessi bassi o promuovendo partnership finanziarie – sono preoccupanti.
Secondo le prime stime nel 2020 le rimesse dei migranti indirizzate nei paesi del sud del mondo a cominciare dall’Africa arrivando fino all’Europa orientale, caleranno di circa il 20 per cento; in valori assoluti si passerà da 554 miliardi di dollari a 445. Un bel salto all’indietro e un duro colpo per moltissime famiglie e per l’economia di numerosi paesi per i quali pure da questo flusso di entrate dipende l’andamento del prodotto interno lordo.
“Il problema è che sta implodendo l’economia africana”, osserva Giulio Albanese, missionario, direttore di Popoli e missione, studioso delle società e dell’economia dell’Africa. “Il calo delle rimesse, la svalutazione delle materie prime a cominciare dal crollo del prezzo del petrolio (si pensi, per capire di cosa parliamo, che il 60 per cento del pil dell’Angola dipende dall’oro nero), la chiusura delle frontiere, il crollo del turismo: tutto questo sta mettendo in ginocchio l’economia africana. Ci sarà fame”.
Meno soldi per scuola, salute e cibo
Le ultime notizie della Banca mondiale lo confermano: metalli e materie prime legate all’energia (petrolio, gas naturale e carbone) sono tra i settori più colpiti, tra gennaio e marzo il prezzo del greggio è sceso del 50 per cento. Da qui però la crisi si allarga – a causa di frontiere chiuse e limitazioni nei trasporti – anche al settore agricolo che, almeno sulla carta, dovrebbe cavarsela meglio.
In alcuni paesi le risorse provenienti dai lavoratori all’estero ammontano a un quarto o anche a un terzo del pil, tra questi ci sono il Sud Sudan, Haiti, il Nepal, il Kirghizistan, il Tagikistan, il Montenegro e Tonga. Su un piano generale, si prevede che le regioni del mondo maggiormente colpite dalla flessione delle rimesse dei migranti saranno l’Europa orientale (si pensi al numero di badanti, baby sitter, a chi è impegnato in lavori di cura) e l’Asia centrale dove il calo percentuale dovrebbe toccare quota 27,5 per cento, seguite subito dopo dall’Africa subsahariana (23,1 per cento) e dall’Asia meridionale (22,1 per cento). Per la sola Africa subsahariana si prevedono perdite pari a 37 miliardi di dollari.
Del resto quella delle rimesse è una questione destinata a incidere non poco sulla vita di una parte significativa della popolazione. “Molte famiglie“, spiega Albanese, “investono le risorse delle rimesse per pagare le tasse scolastiche, è la prima cosa che molti fanno: pensare all’istruzione dei figli, dei nipoti”. Ma la riduzione di denaro a disposizione avrà effetti “anche sulle spese per la salute e sulle entrate fiscali, perché la gente non ha più i soldi per pagare le tasse. Certo si tratta di cifre che non sono minimamente paragonabili agli standard occidentali, però l’economia familiare in molti casi dipende dalle rimesse”.
Finora, il tasso di mortalità dovuto al covid-19 in Africa non è cresciuto in modo esponenziale come ci si poteva attendere
“Sappiamo che le rimesse, per entità, avevano già superato gli aiuti allo sviluppo al livello globale”, rileva a sua volta Paolo Beccegato, vicedirettore della Caritas italiana e responsabile area internazionale dell’organizzazione cattolica. Di conseguenza “l’impatto del problema sui paesi che più dipendevano da queste risorse sarà veramente drammatico. Attraverso la rete Caritas sparsa per il mondo”, continua Beccegato, “abbiamo già segnali di crescenti tensioni sociali dovuti alla crisi in corso. Per esempio si sono verificati episodi di violenza da parte della polizia che ha sparato sulla popolazione alla periferia di Nairobi, in Kenya”. D’altro canto, aggiunge, non si dimentichi che “le famose primavere arabe del 2011 cominciarono proprio con la richiesta di cibo e adesso il grido più forte che arriva da tutto il mondo è ancora quello, la richiesta di beni alimentari essenziali”.
“È chiaro”, sottolinea il vicedirettore della Caritas, “che in molti paesi africani il lavoro alla giornata, il piccolo commercio informale, rappresentano lo scenario di vita e sopravvivenza quotidiana più diffuso. Ora tutto questo non è possibile a causa delle misure restrittive soprattutto nelle grandi città africane dove hanno chiuso gli uffici, le scuole, le chiese e le moschee”. La questione si è posta in varie parti del continente a cominciare naturalmente da quei paesi dove le misure di confinamento sono state più rigorose come in Nordafrica, in particolare in Egitto, in Marocco, in Algeria e in Tunisia.
Il contagio della paura
Un altro aspetto della questione riguarda forme di superstizione diffuse in varie regioni dell’Africa. Dai paesi d’origine viene rivolta a chi vive, per esempio, in Italia l’accusa di essere diventato una sorta di “untore”, perché probabilmente il paese dove ha deciso di lavorare e vivere ha meritato la maledizione degli spiriti. La risposta non di rado può essere il rifiuto, da parte di chi si trova a lavorare all’estero, di mandare altro denaro a casa. Il fenomeno però ha ripercussioni anche nelle stesse realtà africane. Presso varie popolazioni, rileva Paolo Beccegato, “la malattia, la diversità sono una sorta di maledizione, per esempio in alcuni casi i malati di mente vengono mandati nelle foreste o addirittura legati agli alberi, a volte la malattia diventa uno stigma sociale”. Anche perché, non va dimenticato, “ci sono realtà che hanno vissuto l’epidemia dell’ebola – pensiamo a paesi come Sierra Leone, Liberia, Guinea – e le popolazioni sanno benissimo quale tributo di morte comporti una grave epidemia; c’è dunque un misto di stigma e paura. Molte persone per questo si rifiutano di fare i test e i governi, da parte loro, stanno imponendo test di massa dove e quando possibile e se la popolazione si rifiuta la zona viene isolata in una sorta di zona rossa”.
Tuttavia va detto che il tasso di mortalità dovuto al covid-19 in Africa non è cresciuto in modo esponenziale come ci si sarebbe potuto attendere anzi, almeno in questa fase, i numeri sono abbastanza contenuti. Tra l’altro è importante ricordare che l’età media nel continente è particolarmente bassa, il 60 per cento degli africani ha meno di 25 anni. E all’inizio solo due centri sanitari erano attrezzati per diagnosticare la malattia: uno a Dakar, in Senegal, e l’altro a Johannesburg, in Sudafrica. Successivamente, con il passare delle settimane, un po’ tutti gli stati si sono attrezzati, “anche se ovviamente non si può fare lo screening che si fa in Europa”, osserva Albanese. Ma non va dimenticato, infine, che l’Africa è ancora percorsa da tre grandi flagelli: hiv, tubercolosi e malaria, senza contare le 17 malattie neglette tropicali. I sintomi del covid-19 spesso si perdono in questo reticolo di malattie ed epidemie ricorrenti.
Non c’è dubbio, in ogni caso, che la disoccupazione abbia colpito nei paesi sviluppati settori come il turismo con le sue numerose attività in cui molti migranti, anche stabilizzati, avevano trovato lavoro. La caduta occupazionale, in questo senso, è destinata a durare almeno fino alla prossima primavera. E però a colpire l’economia africana ci hanno pensato anche attori esterni come le tre potenti agenzie di rating americane: Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch che hanno declassato i sistemi economici di ben dieci paesi africani in concomitanza con il diffondersi della pandemia. Si tratta di Angola, Botswana, Camerun, Capo Verde, Repubblica Democratica del Congo, Gabon, Nigeria, Sudafrica, Mauritius e Zambia; un elenco che comprende anche economie stabili come quella del Botswana o comunque strutturate come nel caso del Sudafrica, paese che è stato fortemente danneggiato dal declassamento.
Per Giulio Albanese si tratta di interventi che hanno assestato un colpo tremendo alla struttura finanziaria del continente spaventando gli investitori e danneggiando i governi nella gestione della crisi, senza tralasciare possibili intenti speculativi. La crisi alimentare, avverte infatti Albanese, non è dovuta solo ai pur rilevanti cambiamenti climatici, “dobbiamo tenere conto che il prezzo delle derrate alimentari è determinato dalle speculazioni di borsa a Chicago dove si giocano le quotazioni sui prodotti alimentari; tutto questo ha inevitabilmente una ricaduta sulla vendita delle merci al dettaglio e sulla vita delle persone”.