C’è un dato che emerge con forza dagli ultimi mesi convulsi e drammatici della vita politica statunitense: nessuno dei protagonisti o contendenti coinvolti può o vuole fare a meno della Bibbia e della sua forza evocatrice. Il contenuto religioso ritornava in modo dirompente sia tra i manifestanti che assaltavano il congresso – “Gesù salva”, “Nancy Pelosi è satana” si leggeva su vari cartelli – sia nel momento in cui Joe Biden prestava giuramento su un’antica e voluminosa Bibbia di famiglia.
Gesù insomma è ovunque, anche nel nuovo congresso dove solo uno dei nuovi eletti si dichiara non credente (mentre circa un quarto degli americani, il 26 per cento, si descrive come agnostico, ateo o comunque con nessuna appartenenza religiosa). È quanto rileva il Pew research center, istituto che fotografa costantemente i mutamenti sociali e demografici degli Stati Uniti. Ancora, risulta che “quasi nove parlamentari su dieci si identificano come cristiani (88 per cento), rispetto ai due terzi degli americani presi nel loro insieme (65 per cento)”, inoltre “il congresso è sia più fortemente protestante (55 per cento contro 43 per cento) che più fortemente cattolico (30 per cento contro 20 per cento) rispetto alla popolazione adulta degli Stati Uniti in generale”. In merito all’appartenenza religiosa dei parlamentari americani – tra i quali si annoverano anche ebrei, musulmani, buddisti e altre religioni – va invece sottolineato come i cattolici prevalgano tra i democratici, i protestanti tra i repubblicani; non si dimentichi infine che tra gli elettori evangelici bianchi il consenso in favore di Trump è stato sempre intorno all’80 per cento (ben diverso l’atteggiamento degli evangelici afroamericani).
“La Jericho March (la dimostrazione culminata con l’assalto al congresso del 6 gennaio scorso) è la prova che Donald Trump ha piegato elementi del cristianesimo americano alla sua volontà”, ha scritto Emma Green sull’Atlantic. “E che molti cristiani hanno ricostruito la loro fede a immagine dell’ex presidente”. Nell’articolo, dal titolo “Un’insurrezione cristiana”, si spiega come molti degli assaltatori del congresso credevano di “marciare sotto la bandiera di Gesù per fare la volontà di Dio e mantenere Trump alla Casa Bianca”.
La chiesa statunitense non sembrava considerare come un discrimine la distanza siderale tra Santa Sede e Casa Bianca su alcuni nodi di fondo
In questa prospettiva, assume una sua rilevanza storica il fatto che Joe Biden è un cattolico praticante, non un credente di facciata: la sua è una fede autenticamente vissuta. Si tratta inoltre del primo fedele della chiesa di Roma a tornare alla Casa Bianca dai tempi di J. F. Kennedy, il che non è un particolare da poco. Ma nel contesto rovente delle ultime settimane l’elezione di un cattolico alla Casa Bianca è stato vissuto più con imbarazzo che come un successo da parte dell’episcopato statunitense. Resta infatti forte la divisione fra i vescovi: in molti avrebbero preferito una vittoria di Donald Trump, mentre altri vivevano l’ipotesi di un nuovo mandato di quest’ultimo come un’autentica catastrofe.
La vittoria di Biden, in ogni caso, ha rovesciato il piano inclinato sul quale avanzava la strana alleanza tra evangelici e cattolici in nome di un fondamentalismo cristiano costruito tutto sulla battaglia antiabortista, sul rifiuto di concedere diritti e status giuridico alle unioni omosessuali, sul no secco a ogni regolamentazione del fine vita. Si dirà che è la vecchia storia dei princìpi non negoziabili, ma in realtà c’è qualcosa di più.
Trump infatti si ergeva a leader di un cristianesimo trasfigurato in ideologia bioetica e, allo stesso tempo, guidava la rivolta “suprematista”. Non solo: la gestione disordinata della pandemia aveva conseguenze soprattutto tra i ceti più poveri e privi di protezione sanitaria, il riesplodere del conflitto razziale riproponeva in modo dirompente il problema delle diseguaglianze sociali nel paese, al contempo l’ex presidente repubblicano aveva dato il via libera alla ripresa delle condanne a morte federali rompendo una moratoria che durava da quasi settant’anni. Una serie di fatti che avrebbero dovuto imporre quantomeno un colpo di freno ai vescovi più trumpiani, se non altro per il venir meno di ogni minimo segnale di coerenza o sintonia con i princìpi di fondo della dottrina sociale della chiesa. Su un piano più generale, la chiesa statunitense non pareva considerare come un discrimine sufficiente la distanza siderale che separava Santa Sede e Casa Bianca su alcuni nodi di fondo: dalle migrazioni al cambiamento climatico alla necessità di una governance globale per affrontare problemi di tale portata (in netto dissenso con una visione puramente nazionalistica in ambito politico).
Forse i settori più oltranzisti e conservatori del cattolicesimo d’oltreoceano avevano sperato che la vittoria di Trump avrebbe messo definitivamente in crisi il pontificato di Francesco giudicato troppo progressista? La domanda è lecita, ma le cose, dal punto di vista elettorale, sono andate diversamente. Nel magmatico e diversificato cristianesimo americano si è invece saldato, in modo inestricabile, un fronte unico che va dall’antiabortismo al suprematismo bianco, dal tradizionalismo religioso al rifiuto delle minoranze e dei migranti fino a sconfinare nel razzismo. È lungo questa trincea che si sono infatti ritrovati – insieme alla galassia delle chiese evangeliche bianche – una parte dei cattolici guidati da settori tutt’altro che irrilevanti dell’episcopato, si pensi – tra gli altri – all’arcivescovo di New York, il cardinale Timothy Dolan.
Sotto esame
Questa linea intransigente – assai più che moderata – ha avuto un suo peso, tanto da ridurre al silenzio o quasi la Conferenza episcopale degli Stati Uniti di fronte all’assalto estremista al congresso del 6 gennaio. Un blando comunicato di condanna veniva firmato da monsignor José Gomez, il presidente dei vescovi degli States. Figura fragile, monsignor Gomez, arcivescovo ma non cardinale di Los Angeles, di origini messicane, formatosi nell’Opus dei, conservatore sui temi bioetici ma più aperto e impegnato in materia di migrazioni, è stato travolto dagli eventi e i suoi tentativi di mediazione sono andati in frantumi. Con un primo comunicato diffuso pochi giorni dopo l’elezione di Biden, Gomez si era congratulato con il nuovo presidente subendo però la pressoché immediata reazione dei molti vescovi del partito pro-life che imponevano una linea diversa: il cattolico Biden era sotto esame proprio perché sull’aborto e altri temi sensibili non rispettava l’insegnamento della chiesa.
La querelle si è trascinata fino al giorno dell’insediamento di Biden, quando Gomez ha diffuso una lunga nota nella quale esprimeva critiche forti e dirette alle posizioni del neopresidente su questioni relative alla sessualità, all’eutanasia, all’aborto. E qui è successo qualcosa di inatteso: l’arcivescovo di Chicago, il cardinal Blase Cupich, in una serie di tweet ha messo sotto accusa la nota del presidente dei vescovi giudicandola “sconsiderata” nel merito e redatta senza una preventiva consultazione degli organismi decisionali della conferenza episcopale. Una rottura in piena regola per di più resa nota via social, ovvero urbi et orbi. “Quella che doveva essere una transizione pacifica verso una nuova amministrazione – spiegava Cupich in una dichiarazione diffusa a sua volta il 20 gennaio – è stata messa in pericolo da un attacco mortale al Campidoglio e, in effetti, da un assalto alla democrazia stessa. Questi eventi rappresentano battute d’arresto e fallimenti istituzionali e sociali”. Insieme a Cupich, in questi mesi, si è fatto sentire anche l’arcivescovo di Washington, il cardinale Wilton Greogry, il primo porporato afroamericano degli Stati Uniti; entrambi sono stati nominati da papa Francesco.
Di certo la vicenda è solo al suo inizio. Si tenga infatti presente che fra i primi decreti firmati da Biden subito dopo l’insediamento, c’è anche un provvedimento che mette al bando ogni discriminazione sul posto di lavoro in base dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere; rapidamente, anche in questo caso è arrivata la reazione dei vescovi guidata dal cardinale Dolan, presidente, fra l’altro, del Comitato per la libertà religiosa della conferenza episcopale. “L’ordine esecutivo sulla discriminazione sessuale”, si legge in una nota, “minaccia di violare i diritti delle persone che riconoscono la verità della differenza sessuale o che sostengono l’istituzione del matrimonio per tutta la vita tra un uomo e una donna”. A seguire elogi per i decreti contro il razzismo e la ripresa dell’impegno per fermare li cambiamento climatico. La partita fra Casa Bianca e vescovi è insomma in corso ma sembra che a giocarsi una parte considerevole della propria identità e del proprio futuro sia soprattutto la chiesa cattolica.
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