Il viaggio del papa in Iraq è stato importante per diverse ragioni, sia politiche sia religiose, ma fra tutte ne spicca una: aver strappato la regione alla rassegnazione dei conflitti e del sangue, del terrorismo e della legge dell’ingerenza del più forte, dell’impotenza della diplomazia e del diritto; tanto più in un momento in cui l’impatto traumatico della pandemia contribuisce a cancellare le altre crisi del mondo contemporaneo. Francesco, invece, non solo ha compiuto un passo storico nel dialogo interreligioso incontrando una delle massime autorità dell’islam sciita, il grande ayatollah Ali al Sistani, ma ha riaffermato i princìpi di parità tra tutte le componenti etniche, sociali e religiose del paese fondati sulla cittadinanza; su questa strada è stato accompagnato dallo stesso Al Sistani il quale in una dichiarazione ha voluto assicurare il proprio impegno affinché “i cittadini cristiani vivano come tutti gli iracheni in pace e sicurezza, con tutti i loro diritti costituzionali”.
Parole che certo non saranno state gradite alla teocrazia di Teheran. D’altro canto un effetto simile aveva avuto la Dichiarazione sulla fratellanza umana firmata nel 2019 dal papa con il grande imam Ahemed al Tayyeb, leader questa volta dell’islam sunnita, sui governanti di Ankara, Riyadh o del Cairo. Non a caso Al Tayyeb aveva espresso su Twitter il proprio incoraggiamento per il successo del viaggio in Iraq “di mio fratello il papa”. Anche in quel caso, infatti, il tema dell’uguaglianza dei cittadini fondata sul diritto (con annessa libertà di professare la propria fede), era stata posta al centro di un disegno ampio di collaborazione tra popoli, culture, fedi.
I grandi capi religiosi del mondo cristiano e musulmano, dunque, sono andati oltre una generica idea di tolleranza e di tutela delle minoranze, ridotte a essere soggetti deboli nei loro stessi paesi, e hanno provato a coniugare diritti civili e libertà religiosa, visione spirituale e convivenza in nome di una pace non formale ma praticata e vissuta. Anche per questo l’incontro del papa con l’altra metà del cielo islamico, quello sciita, è stato definito storico da giornali come Le Monde e The Guardian.
D’altro canto, questi stessi temi sono stati al centro del primo discorso di Francesco appena arrivato a Baghdad – dove è stato accolto dal presidente Barham Ahmed Salih Qassim – di fronte alle autorità politiche e civili del paese. “In questi anni l’Iraq ha cercato di mettere le basi per una società democratica”, ha detto il papa. “È indispensabile in tal senso assicurare la partecipazione di tutti i gruppi politici, sociali e religiosi e garantire i diritti fondamentali di tutti i cittadini. Nessuno sia considerato cittadino di seconda classe. Incoraggio i passi compiuti finora in questo percorso e spero che rafforzino la serenità e la concordia”.
Se Najaf, città santa per gli sciiti, è stata la cornice del colloquio durato quasi un’ora fra Francesco e Al Sistani, altra tappa rilevante della trasferta in Iraq del papa è stata quella nella piana di Ur, dove si è svolto un incontro interreligioso estremamente significativo in ragione della varietà di tradizioni religiose che si intrecciano nella storia del paese mediorientale. Ur è inoltre luogo chiave della storia di Abramo, considerato il padre comune per le tre grandi religioni del libro: ebraismo, cristianesimo, islam. Nell’occasione Francesco ha evocato la stagione drammatica del dominio del gruppo Stato islamico (Is) nel nord dell’Iraq: “Vorrei ricordare in particolare la comunità yazida che ha pianto la morte di molti uomini e ha visto migliaia di donne, ragazze e bambini rapiti, venduti come schiavi e sottoposti a violenze fisiche e a conversioni forzate. Oggi preghiamo perché ovunque siano rispettate e riconosciute la libertà di coscienza e la libertà religiosa: sono diritti fondamentali, perché rendono l’uomo libero di contemplare il cielo per il quale è stato creato”.
In un quadro tanto articolato, non va dimenticato che il papa ha compiuto il suo viaggio pastorale in Iraq pure per incontrare e dare sostegno alle comunità cristiane del paese, sempre più ridotte numericamente per via di una migrazione che non conosce soste dal 2003, quando scoppiò la guerra contro Saddam Hussein condotta dagli Stati Uniti. Da allora una lunga scia di conflitti etnici (spesso alimentati dall’esterno), atti terroristici, persecuzioni, si è sommata a una persistente crisi economica e sociale che ha indotto moltissimi iracheni, tra cui tanti cristiani, a lasciare il paese. La rivista della Compagnia di Gesù, La Civiltà Cattolica, citando le parole di monsignor Bashar Warda, arcivescovo della chiesa cattolica caldea dell’Iraq, ha affermato: “Prima del 2003 c’erano in Iraq oltre 1,3 milioni di cristiani. Oggi ne sono rimasti meno di 300mila. Quando non c’è lavoro, non sono garantiti diritti alle minoranze e sicurezza, la fuga e la diaspora sono purtroppo la scelta di molti”. Tuttavia, rileva la testata dei gesuiti, il problema è molto più antico: “Un dato sconfortante ci dà la dimensione di tale esodo: verso la fine dell’impero ottomano, nel 1914, i cristiani erano circa il 24 per cento della popolazione, e arrivavano al 30 per cento nell’area della cosiddetta ‘grande Siria’; negli anni novanta nel Vicino Oriente i cristiani residenti non raggiungevano il 5 per cento. Oggi, a seguito delle guerre in Iraq e Siria, e dopo la crisi in Libano, il numero è ancora molto diminuito. Ciò sta a significare che questa regione è stata depauperata di una presenza culturalmente e spiritualmente molto ricca, che ha contribuito a creare l’identità nazionale di quei paesi”.
Francesco è andato insomma in Iraq anche per riaffermare una presenza cristiana nel paese – e in generale in Medio Oriente – non concepita come corpo estraneo da tutelare con la forza (e quindi perennemente sotto ricatto) ma come parte viva e antichissima di quelle società; tuttavia, lungi dal rivendicare un ruolo specifico per la sola minoranza cristiana, ha cercato di costruire un percorso condiviso con le altre componenti religiose, basato sulle carte costituzionali e sul disarmo delle fedi alimentate dall’odio che porta, inevitabilmente, a una visione apocalittica e quindi totalitaria. Non è un percorso semplice e ci vorrà del tempo, ma indubbiamente una rotta per il futuro è stata tracciata. Tuttavia va detto che anche ai capi della chiesa caldea il papa ha chiesto di rinunciare alla scorciatoia del privilegio, della carica, tanto più in una realtà dove spesso per sfuggire al caos è facile appoggiarsi al potente di turno e a meccanismi corruttivi. “Siate pastori, servitori del popolo e non funzionari di stato”, ha detto il papa rivolgendosi al clero iracheno nella cattedrale sirocattolica di Nostra signora della salvezza a Baghdad. “Sempre nel popolo di Dio, mai staccati come se foste una classe privilegiata. Non rinnegate questa ‘stirpe’ nobile che è il santo popolo di Dio”.
Francesco nel corso del viaggio ha toccato anche il Kurdistan iracheno, dove ha avuto un breve incontro con il presidente e con il primo ministro della regione, rispettivamente Nechirvan Barzani e Masrour Barzani. Infine Bergoglio è stato a Mosul (dove è forte la presenza cristiana), già eletta capitale dell’autoproclamato Stato islamico, e a Qaraqosh, cittadina in cui, prima del conflitto con l’Is, viveva la più grande comunità cristiana del paese. Qaraqosh fu occupata dagli uomini del califfato nel 2014 e sottoposta a una feroce opera di distruzione, la sua popolazione in buona parte costretta alla fuga. Qui Francesco ha fatto visita alla chiesa dell’Immacolata concezione, distrutta dall’Is e ora ricostruita. Nella chiesa è stato accolto da molti fedeli e anche da alcuni musulmani, curdi, yazidi, rappresentanti di una comunità multireligiosa e multietnica che era stata distrutta dall’incubo fondamentalista.
In questo contesto Francesco ha affermato: “Guardandovi, vedo la diversità culturale e religiosa della gente di Qaraqosh, e questo mostra qualcosa della bellezza che la vostra regione offre al futuro. La vostra presenza qui ricorda che la bellezza non è monocromatica, ma risplende per la varietà e le differenze”. Quindi, poco dopo, ha aggiunto. “Il perdono è necessario per rimanere nell’amore, per rimanere cristiani. La strada per una piena guarigione potrebbe essere ancora lunga, ma vi chiedo, per favore, di non scoraggiarvi. Ci vuole capacità di perdonare e, nello stesso tempo, coraggio di lottare. So che questo è molto difficile. Ma crediamo che Dio può portare la pace in questa terra. Noi confidiamo in lui e, insieme a tutte le persone di buona volontà, diciamo ‘no’ al terrorismo e alla strumentalizzazione della religione”.
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