Insegnanti in prima fila per lo ius soli
C’è un solo modo per festeggiare degnamente i trent’anni della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza: rilanciare con convinzione ed energia una mobilitazione civile e una battaglia politica per garantire al più presto la cittadinanza al milione di minorenni figli di immigrati residenti nel nostro paese.
La convenzione – ratificata dall’Italia il 27 maggio 1991 con la legge 176 – indica come precisa responsabilità degli stati quella di “applicare tutti i provvedimenti appropriati affinché il fanciullo sia effettivamente tutelato contro ogni forma di discriminazione”, rispettandone i diritti “senza distinzione di sorta e a prescindere da ogni considerazione di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione politica o altra del fanciullo o dei suoi genitori” (articolo 2). La legge dunque c’è, ma il diritto elementare di essere cittadini come i loro compagni di scuola in Italia non è garantito ai figli di immigrati che sono nati qui e ancor meno a coloro che sono arrivati nel nostro paese da piccoli.
Per questa settimana si stanno organizzando in tutta Italia tanti incontri, seminari, manifestazioni e flash mob nelle scuole e in luoghi pubblici, promossi da diverse amministrazioni comunali, insegnanti e associazioni che si occupano dell’infanzia. Save the children ha convocato manifestazioni in 22 città, da Aosta a Palermo, da Trieste a Potenza per la tutela dei diritti dei minori, contro la dispersione scolastica e le povertà educative.
Il tavolo Saltamuri, che raggruppa 133 associazioni, ha preparato un vademecum contro ogni discriminazione nella scuola e non solo, che i sindaci di Palermo, Napoli e altre città stanno diffondendo negli uffici comunali e nelle scuole.
Classi mondo
Due anni fa più di diecimila docenti hanno aderito a due giornate di sciopero della fame, dando vita a un movimento di “insegnanti per la cittadinanza”. Erano le settimane convulse di fine legislatura e i senatori del centrosinistra non ebbero volontà, coraggio e convinzione sufficienti per approvare la legge sullo ius soli, già votata alla camera e rimasta incredibilmente ferma per due anni.
Allora mi colpì il fatto che in quella campagna, accanto a numerosi docenti con radicate convinzioni politiche, ce ne fossero tanti che aderivano con motivazioni più intime e personali, legate al carattere del nostro mestiere. Se ogni mattina guardiamo negli occhi bambine e bambini delle più diverse provenienze, ragazze e ragazzi le cui famiglie sono arrivate qui da lontano e crediamo con convinzione che la scuola sia il primo luogo pubblico dove sperimentare l’arte del convivere, è evidente che per noi la dignità di ciascuno è al primo posto e in qualche modo, nelle nostre classi, costruiamo giorno per giorno una sorta di piccola cittadinanza, che rende uguali tutti i nostri allievi e li sostiene nell’apprendimento.
Come documenta con precisione Vinicio Ongini nella sua recente Grammatica dell’integrazione in tante e tanti abbiamo sperimentato negli ultimi decenni quanto le classi disomogenee, pur richiedendo forte impegno e una buona dose di flessibilità e inventiva, dischiudano potenzialità sorprendenti. Insegnare in queste “classi mondo” è una grande opportunità per noi docenti e stimola i più persuasi a ricerche e innovazioni didattiche coinvolgenti perché è a partire da qui che possiamo coltivare l’ambizione di dare il nostro piccolo contributo alla costruzione di un futuro meno distruttivo.
Lavorare e dimostrare che tra diversi si può crescere e imparare di più aiuta a contrastare la spinta segregazionista di troppe famiglie italiane, che sempre di più allontanano i propri figli da scuole dove ci sono tante ragazze e ragazzi figli di immigrati. L’unica possibilità sta nel trasformare queste scuole nei migliori luoghi educativi dove ricercare e sperimentare, come fecero nel secolo scorso Ovide Decroly, Janusz Korczak e Maria Montessori, fondando scuole capaci di integrare i più fragili, dove furono fatte scoperte che illuminarono l’educazione di tutti.
Le iniziative
Le iniziative in campo sono le più diverse. Il 20 novembre nell’istituto comprensivo Scarpa di Milano le insegnanti hanno organizzato per le terze, quarte e quinte classi della primaria la partecipazione a un’animazione proposta dagli operatori del Servizio missionario giovani (Sermig) di Torino, che dal 1964 si batte contro la fame nel mondo. I quasi sessanta bambini delle tre classi pescheranno bandierine di paesi di cinque continenti e sarà il destino a separarli: i più dovranno stare seduti a terra e accontentarsi di mangiare qualche arachide o una ciotola di riso, mentre solo sette potranno sedersi a una tavola imbandita, ricca di cibo così abbondante da avanzare. Una rappresentazione plastica della ripartizione diseguale di cibo nel mondo, vissuta in prima persona. Una provocazione che offrirà argomenti e dati per discutere intorno alla Convenzione delle Nazioni Unite.
Il 16 novembre, il comune di Modena, per il quarto anno, ha proposto a tutti gli alunni di quinta della scuola primaria di partecipare a una cerimonia in piazza, dove il sindaco conferisce la cittadinanza simbolica a tutti i bambini e le bambine che frequentano l’ultimo anno delle elementari.
L’iniziativa di Modena, come quelle analoghe di altri comuni, è coinvolgente e, specie nei primi anni, ha commosso bambini e famiglie immigrate, ma per Paula Baudet Vivanco, fondatrice del movimento Italiani senza cittadinanza, non basta più. “Siamo stanchi di cittadinanze simboliche di cui non sappiamo che farci. Il piano simbolico non basta più se non è accompagnato da miglioramenti reali. L’incertezza continua a essere la costante della nostra vita perché, fin da piccoli, abbiamo dovuto affrontare i continui ostacoli che incontravano i nostri genitori sul rinnovo del permesso di soggiorno. Compiuti i diciott’anni si aspetta troppo a lungo l’accesso alla cittadinanza e non vi è mai certezza di ottenerla”, dice Baudet Vivanco.
“Io, per esempio, scappata a sette anni con la mia famiglia dal Cile di Pinochet, solo a 33 anni sono riuscita a diventare a pieno titolo italiana, ottenendo una cittadinanza che mi fu rifiutata alla prima richiesta”, aggiunge. “Il paradosso è che noi da piccoli ci troviamo a soffrire per una situazione che non abbiamo scelto, e che ci costringe a guardare con inquietudine al nostro futuro, perché è come se ci venisse continuamente erosa la tranquillità necessaria a crescere serenamente, la possibilità di stare sicuri con i piedi per terra nella nostra casa. Varchiamo incerti i confini perché non abbiamo sempre garanzia di ritorno, le nostre chiavi di rientro sono momentanee e soggette a permessi e rinnovi, quando per esempio andiamo a trovare parenti, partecipiamo a gare sportive o a gite scolastiche. Le leggi sull’immigrazione e sulla cittadinanza sono peggiorate continuamente e gli ultimi decreti voluti da Salvini hanno rovesciato i faticosi e complessi processi di accoglienza e di soggiorno che, pur tra luci e ombre, avevano attivato in diversi luoghi interessanti processi di integrazione, rovesciandoli in una disintegrazione che causa più isolamento e solitudine, gettando noi e le nostre famiglie nella precarietà e nell’insicurezza”.
È importante riprendere la lotta per la cittadinanza a tutti i minorenni figli di immigrati o nati in Italia da genitori stranieri e di nuovo, in questa mobilitazione, noi insegnanti possiamo giocare un ruolo di rilievo per la nostra particolare collocazione nella società, perché sappiamo bene di cosa si sta parlando. A questo proposito servono alcune considerazioni. Lo ius culturae non può essere considerato come una sorta di premio, che in alcune formulazioni palesemente incostituzionali sarebbe perfino revocabile. Non si diventa cittadini a pieno titolo perché si va bene a scuola, ma essere riconosciuti cittadini a pieno titolo è piuttosto una delle condizioni per andare bene a scuola. Non dimentichiamoci infatti che la dispersione scolastica dei figli di immigrati oggi è al 35 per cento, il doppio rispetto a quella degli italiani con cittadinanza.
C’è una lunga strada da fare, dunque, ed è bene che chi insegna se ne faccia carico in prima persona perché ha molto a che vedere con il mestiere dell’educare.
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