La scelta dei banchi rivela un’idea di scuola e di società
La qualità della didattica nasce da ampie visioni e piccoli particolari, altrettanto importanti. Si fa un gran parlare di banchi innovativi con le rotelle in queste settimane perché il ministero dell’istruzione ha emesso un bando per comprarne un milione e mezzo, e un altro milione e mezzo di “sedute attrezzate di tipo innovativo”. Il fatto che queste sedute attrezzate costino tre volte tanto i normali banchi, siano interamente di plastica e dunque poco ecologiche, abbiano piccoli piani ribaltabili adatti a ospitare tablet o portatili ma non più di due quaderni e libri e, soprattutto, non si possano unire tra loro per lavorare in gruppo condividendo materiali, ha suscitato polemiche accompagnate da battute, vignette e sarcasmi, per via delle fragili rotelle su cui poggia questa discutibile innovazione. A questa discussione in tanti si sono ribellati, sostenendo che non è serio parlare di sedie quando in ballo c’è il futuro della scuola.
Non sono d’accordo, perché il modo in cui si arreda e si organizza lo spazio influenza le relazioni reciproche e configura metodi di lavoro. Lo sapeva bene Maria Montessori, che nel progettare mobili adatti alle ricerche di bambine e bambini liberi di muoversi in autonomia, fondava quell’aiutami a fare da solo, che è alla base della sua rivoluzione pedagogica. Lo sanno le centinaia di scuole che negli ultimi anni hanno aderito al movimento delle “scuole senza zaino”, partito dalla Toscana. Per aderire si chiede di sostituire i banchi con grandi tavoli attorno a cui bambini, ragazze e ragazzi organizzano le loro attività creando comunità e costruendo responsabilità, in un progetto di scuola che ha l’ambizione di ospitare e prendersi cura di ogni differenza.
Dunque lo spazio è davvero il terzo educatore e la questione dei mobili va affrontata con cautela e discernimento. Sarebbe da pazzi, ad esempio, rottamare centinaia di migliaia di banchi in nome dell’emergenza che, provvisoriamente, chiede alle scuole di mantenere un metro di distanza.
Forma chiama forma
Chandra Livia Candiani, animatrice di laboratori di poesia nelle classi multietniche di Milano, racconta la sua esperienza sostenendo, con icastica precisione, che forma chiama forma.
La sequenza è questa: entro in classe e facciamo un cerchio di sedie o ancora meglio noi seduti a terra. Una volta, una maestra ha unito i banchi, non solo le sedie, e ha fatto un rettangolo: i bambini hanno scritto in prosa. Le ho chiesto di levare i banchi e, anche se le sono sembrata astrusa, alla fine pure lei è rimasta sbalordita da come la forma chiama forma e dalle prose sono uscite delle poesie.
Può apparire eccessiva la consequenzialità meccanica evocata dalla poetessa milanese ma, avendo insegnato quarant’anni nella scuola elementare, so quanto il parlare in cerchio o da dietro i banchi, seduti a terra o sotto un albero in giardino, cambi a qualsiasi età l’espressione dei pensieri e, soprattutto, la qualità dell’ascolto reciproco, che è il fondamento di ogni pratica educativa sensata.
Spesso, nell’affrontare problemi posti da diverse disabilità, individuiamo soluzioni e costruiamo contesti che migliorano l’apprendimento di tutti.
Ecco cos’è successo nella nostra scuola a Giove, in Umbria. Alessandro in terza elementare ci ha fatto un gran regalo per via del problema che aveva. Sordo dalla nascita, dunque privo di linguaggio verbale comprensibile, faceva fronte a questa mancanza con vitalità e intelligenza vivace, riuscendo a coinvolgere i compagni e noi insegnanti nei suoi giochi e nelle sue scoperte. Nonostante avesse appreso i rudimenti della lingua dei segni, a cui anche noi siamo stati introdotti grazie a un’operatrice della comunicazione appassionata ed esperta, nei suoi primi anni di scuola è stato operato perché potesse recuperare udito e parola attraverso un impianto cocleare, che è un orecchio artificiale elettronico in grado di ripristinare la percezione uditiva nelle persone con sordità profonda.
Un piccolo stratagemma
Per diverse ragioni il suo impianto non ha mai funzionato bene. In un corso di formazione abbiamo imparato che sentire suoni e rumori attraverso un orecchio artificiale che funziona in modo intermittente è come ascoltare a tutto volume una radio mal sintonizzata tra due stazioni, che gracchia in continuazione. Un vero inferno per Alessandro, perché ogni suono che producevamo in classe rimbombava amplificato nel suo cervello, provocando grandi fastidi.
Una formatrice esperta – sorda anche lei dalla nascita, ma dotata di un impianto che funzionava – ci ha spiegato alcuni suoi scatti improvvisi e momenti di nervosismo. Oltre alla diagnosi, ha fornito a noi docenti una soluzione semplice e geniale al problema, invitandoci a trasformare leggermente le nostre sedie. Raccogliendo il suo suggerimento, abbiamo fatto due tagli a forma di croce su 84 palle da tennis usate, comprate per pochi euro su internet, e le abbiamo infilate sotto ai piedi delle nostre sedioline.
Da quel giorno il paesaggio sonoro della classe è radicalmente mutato, perché bambine e bambini potevano spostare tranquillamente le loro sedie per mettersi al lavoro intorno a un grande tavolo composto da quattro o sei banchi, oppure metterle in cerchio per discutere insieme guardandoci negli occhi, come facevamo ogni mattina, senza che alcun rumore fastidioso di ferraglia rimbombasse nella classe, innervosendo Alessandro e affaticando i nostri timpani.
Non c’è cosa più noiosa e poco stimolante che abitare una classe sempre uguale a se stessa
Spostare banchi e sedie rimodulando continuamente lo spazio a seconda delle attività e delle ricerche in cui ci si impegna è condizione imprescindibile per una scuola attiva.
Nora Giacobini, fondatrice del Movimento di cooperazione educativa di Roma e grande innovatrice di didattica della storia, nei primi anni sessanta rideva dei colleghi che, commentando il suo instancabile attivismo, la prendevano in giro dicendo: “Cosa fa la Giacobini? Scarrozza i banchi.” Banchi e tavoli si devono poter scarrozzare di continuo perché attività diverse pretendono modi di porsi e disporsi differenti e non c’è cosa più noiosa e poco stimolante che abitare una classe sempre uguale a se stessa.
Emma Castelnuovo, fin dagli anni cinquanta, introdusse nella didattica della matematica materiali di ogni genere perché ragazze e ragazzi potessero appropriarsi dei concetti più astratti, costruendo figure in movimento con elastici, spaghi e stanghette. Convinta che “le mani sono più democratiche della testa”, si impegnò sempre perché la matematica fosse alla portata di tutti nella scuola media. “La matematica si impara con le mani e si insegna con i piedi”, sintetizzò un suo simpatico seguace, indicando nel camminare tra i banchi la postura più efficace di chi insegna, che può in questo modo osservare e cercare di comprendere quali strategie ciascuno mette in moto singolarmente o lavorando in gruppo nell’affrontare un problema.
Avere a disposizione sedie mobili a rotelle nelle scuole superiori potrebbe essere una buona cosa per movimentare gli spazi dell’apprendere, se non fosse che il milione e mezzo di “banchi innovativi” previsti da un bando maldestro e mal concepito fin dall’origine, ne prefigura di poco versatili, perché dotate di tavolinetti ribaltabili troppo piccoli per contenere più di un libro o quaderno e, soprattutto, progettate in modo che non si possano unire tra loro né ora né in futuro. E dato che gli studenti di licei, tecnici e professionali sono due milioni e 635mila, e i banchi innovativi ordinati sono un milione e mezzo, questo acquisto è destinato a cambiare radicalmente il mobilio in oltre metà delle classi delle scuole superiori impedendo, nel futuro, lo studio su tavoli adatti a lavori di gruppo, dove condividere e confrontare libri e materiali più vari, disegnare una mappa o un cartellone, apprendere la matematica o le scienze utilizzando materiali da manipolare.
Immaginare l’innovazione legandola solo al digitale è fuorviante e pericoloso
Nel libro Fare didattica in spazi flessibili, che Leonardo Tosi ha curato per l’Istituto nazionale di documentazione innovazione e ricerca educativa (Indire), a conclusione di una lunga e approfondita ricerca che tiene conto di numerose esperienze anche internazionali, vengono mostrate una grande quantità di soluzioni che riguardano i banchi. Tutte orientate all’idea che, per facilitare il lavoro di gruppo e una costruzione collettiva del sapere, sia necessario prevedere la massima flessibilità, arredando le scuole con banchi diversi, ma sempre componibili tra loro in forma di esagoni, cerchi o rettangoli di ogni dimensione.
Immaginare l’innovazione legandola solo a una diffusione e immersione totale nel digitale è fuorviante e pericoloso, perché ragazze e ragazzi trascorrono già ore e ore davanti a schermi di ogni dimensione. Al contrario, e per riequilibrare le modalità virtuali largamente usate, nella scuola dovrebbero prevalere il corpo, l’incontro diretto e il dialogo, capaci di rendere viva una relazione con le conoscenze che esalti le molteplici e possibili relazioni da stabilire in un corpo a corpo con gli oggetti culturali, capace di coinvolgere tutti.
I modi di stabilire relazioni nello spazio sperimentati da Mario Lodi nella sua classe li racconta Tullio De Mauro scrivendo:
La lezione più incisiva viene dal rendiconto del suo fare scuola: Mario che entra il suo primo giorno in una prima elementare e propone di servirsi della cattedra come una eccellente stia entro cui allevare i pulcini; il signor maestro resta senza protezione della cattedra, scende tra i banchi, invita a metterli in cerchio, siede in un punto qualunque e comincia a parlare: questo vale parecchi volumi di pedagogia teorica.
All’opposto Ernesto Galli Della Loggia, in un decalogo pubblicato sul Corriere della Sera nel 2018, proponeva al nuovo ministro leghista la reintroduzione in tutte le aule della predella sotto la cattedra per indicare, “con la limpida chiarezza del simbolo”, che “il rapporto pedagogico non può essere costruito che su una differenza strutturale” perché “la sede propria della democrazia non sono le aule scolastiche”. Come si vede bene la disposizione di banchi e cattedra rivela un’idea di scuola che è anche un’idea di società.
Aule laboratorio per una scuola labirinto
Il vero problema è che nella scuola le diverse discipline si somigliano troppo nel modo in cui sono insegnate. Se per incontrare e apprendere qualcosa di storia, matematica, geografia, musica o letteratura ascolto una lezione o leggo un testo, sono invitato a memorizzarne i contenuti per essere poi interrogato o fare una verifica, questi tre passi sempre uguali finiscono per far somigliare tutto a tutto, annegando troppo spesso la didattica in una noia mortale che, come ben sappiamo, allontana nel nostro paese troppi studenti dal desiderio di conoscere e continuare a studiare.
Ecco allora che la difficoltà nell’immaginare spazi e ambienti di apprendimento diversi rivela le tante difficoltà che troppi insegnanti hanno nell’immaginare e sperimentare modalità di approccio alle conoscenze differenti per ogni ambito di studio. Se la musica si suona e la geografia la si incontra srotolando mappe ed esplorando la città, se la storia la si ricostruisce inseguendo indizi e confrontando materiali, e le scienze formulando ipotesi e verificandole con esperimenti, anche la letteratura la si può forse incontrare con corpo e voce piena, capace di dar vita ai testi, in uno spazio vuoto dov’è possibile anche muoversi stando in piedi, come sul palco di un teatro.
Ci sono scuole medie che stanno sperimentando aule legate alle diverse discipline, dove il docente ospita ragazze e ragazzi in uno spazio pensato e strutturato per la costruzione di quelle conoscenze. A Brno, nella Repubblica Ceca, c’è una scuola ispirata all’attivismo del filosofo e pedagogista John Dewey che ha scelto il bel nome di Labyrinth school. È stata realizzata trasformando ogni angolo e aula in laboratorio e mostra bene come si possano differenziare in modo creativo tutti gli spazi.
Esperimenti di grande interesse ci sono anche in Italia, da Modena a Pozzallo, e questo rende ancor più insopportabile e povera l’idea che l’innovazione didattica debba passare unicamente o prevalentemente attraverso una massiccia diffusione del digitale. È questa la scelta, infatti, che sembra avere orientato il milione e mezzo di poltroncine con tablet ordinate dal ministero.
Tra la scuola-caserma, capace solo di riprodurre se stessa nell’insensatezza di un tempo monotono, irrigidito da ruoli sempre uguali, e la scuola-labirinto, in cui mutano in continuazione le prospettive e i punti di vista, invitando tutti i suoi abitanti a un’incessante ricerca, si apre un’ampia gamma di sperimentazioni possibili. Nel valutare con la massima attenzione le possibilità aperte dal recovery fund, che dovranno necessariamente essere dedicati al miglioramento delle nostre scuole e del nostro sistema di istruzione, abbiamo bisogno di aperture mentali, responsabilità sociali e una tensione collettiva capace di immaginare e progettare spazi in grado di stimolare l’intelligenza e le curiosità di bambine e bambini, ragazze e ragazzi.