La preziosa eredità educativa che lascia Fiorenzo Alfieri
“Non riuscivo a parlare tanto bene. Parlavo in dialetto, non capivo la lingua italiana e scrivevo male. Mi hanno bocciato due anni anche perché aiutavo mia madre a lavorare. Poi ho cominciato a capire parlando. Il maestro mi faceva parlare molto, mi ha insegnato pure a discutere, perché io nelle altre classi non ero capace a discutere, non si parlava mai, chi parlava pigliava un cinque o un quattro. Qui adesso sono libero di parlare”. Il maestro che insegnava l’arte del discutere a questo ragazzo immigrato dalla Puglia si chiama Fiorenzo Alfieri, morto domenica 13 dicembre a causa del covid-19. Con lui Torino, e l’Italia, perdono uno dei protagonisti della sua vita politica e culturale.
Giovane maestro nella periferia di Torino, inaugurò esattamente cinquant’anni fa una delle esperienze più innovative di trasformazione della scuola elementare. Nel 1970, in sei scuole della cintura operaia della città, caratterizzata da una forte presenza di immigrati meridionali, diede vita insieme a un nutrito gruppo di maestre e maestri impegnati e visionari alla prima esperienza di tempo pieno, che metteva radicalmente in discussione i vecchi metodi educativi.
A guardare quelle aule – riprese con sensibilità e intelligenza da Luigi Comencini nel documentario televisivo intitolato I bambini e noi – si vede un laboratorio scientifico e naturalistico, grandi pitture colorate alle pareti, banchi raggruppati per svolgere insieme dei lavori e una tipografia per stampare i testi composti dai bambini, che Alfieri aveva acquistato appena sposato e pagato personalmente a rate, come al tempo facevano diverse compagne e compagni del Movimento di cooperazione educativa, di cui era militante attivo.
La necessità di mescolare il sangue
Nel libro La città che non c’era Alfieri ripercorre il suo impegno politico e di quegli anni scrive: “L’ambizione di noi insegnanti fu sempre quella di contrastare il principio secondo cui l’offerta educativa e culturale, se vuole davvero incontrare gli strati più popolari, deve necessariamente abbassare il proprio livello. Cercammo di dimostrare l’esatto contrario e cioè che, lavorando in un certo modo con i bambini e con le loro famiglie, si poteva produrre il ‘miracolo’ di ottenere una qualità pari se non superiore a quella riscontrabile in ambienti socialmente più avvantaggiati”.
E ancora: “La notorietà del nostro lavoro indusse, nel quinquennio immediatamente successivo, parecchie famiglie della borghesia torinese illuminata, abitanti nel centro, a sobbarcarsi ogni giorno un lungo viaggio per portare i loro figli nella lontanissima Nino Costa, permettendo così a noi di ‘mescolare il sangue’ delle nostre classi. Un fatto di questo tipo – che si andava ad aggiungere al risultato di avere, dopo cinque anni di scuola, ragazzi e famiglie che leggevano libri in modo regolare, ascoltavano buona musica, si organizzavano per andare insieme la domenica a conoscere i beni storico-artistici della regione, facevano teatro e soprattutto organizzavano comitati di quartiere spontanei per portare i loro modi di ragionare e di agire fuori dai confini della scuola – a me pare di particolare interesse. Si parla tanto, infatti, di rompere i ghetti urbani ma è difficile poi accettare il principio che il modo migliore per farlo stia nel creare in periferia servizi migliori di quelli che si trovano nelle zone considerate privilegiate, fino a indurre i ceti medio-alti a complicarsi la vita pur di mettere a disposizione dei loro figli certi modi di stare insieme e di capire il mondo”.
Nella discussione su come utilizzare al meglio i fondi del piano “Next generation EU”, i più accorti propongono in queste settimane misure di “discriminazione positiva” per la scuola, perché nei territori educativi più in difficoltà giungano maggiori risorse. Il problema è che maggiori finanziamenti non bastano se non intrecciano impegno, visioni, energie e una voglia di sperimentare insieme che vada oltre l’orizzonte conosciuto. E allora penso sia particolarmente utile tornare a rileggere ciò che scriveva Alfieri sulla necessità di “mescolare il sangue”, rendendo le scuole delle periferie urbane così ricche di proposte didattiche e culturali da attrarre bambine e bambini anche da altri quartieri.
Idee dal passato
In questi mesi di pandemia e grandi sconvolgimenti, mi è capitato più volte di cercare Fiorenzo Alfieri e chiedergli consigli e racconti sulle sue esperienze, perché ciò che ha promosso e vissuto sentivo che ci poteva ancora nutrire. Quando la crisi si fa più acuta e dolorosa, infatti, talvolta è da una rivisitazione attenta del passato che ci possono arrivare stimoli capaci di nutrire l’immaginario di un futuro meno distruttivo.
E allora tornare a quel tempo pieno, sentito allora come necessario e avviato in modo sperimentale a Torino, è particolarmente utile oggi, visto che si chiede una sua estensione in tutto il territorio nazionale, così come può essere vitale tornare all’idea della città educativa, a cui Alfieri cominciò a dedicarsi da assessore, quando fu chiamato dal comunista Diego Novelli a far parte della prima giunta di sinistra eletta per governare Torino.
La sua grande libertà intellettuale e il desiderio di coinvolgere nelle sue sperimentazioni educative l’intera città lo portarono a realizzare anni dopo uno dei progetti più ambiziosi di coinvolgimento sociale attorno alla scuola, rendendo Torino protagonista del coordinamento internazionale delle “città educative”, riferimento utile ancora oggi per chi sta cercando di promuovere e dar vita ai Patti educativi di comunità, capaci di sostenere il difficile lavoro delle scuole.
L’idea che mestieri e professioni, industrie e artigianato, insieme ai servizi e alle istituzioni culturali, possano offrire alle scuole luoghi e occasioni perché ragazze e ragazzi vivano esperienze che gli permettano di intrecciare lo studio e la ricerca alla vita concreta della città penso infatti che sia particolarmente attuale.
Una città capace di aprirsi alla scuola
Molto è cambiato, naturalmente. Allora l’onda lunga del 1968 stava avviando trasformazioni sociali e di costume di grande portata. In quegli anni furono approvate leggi fino ad allora impensabili, improntate a un riformismo radicale raro nel nostro paese: nel 1977 le scuole di ogni ordine e grado aprirono le loro porte a bambini e ragazzi con disabilità, e nel 1978 fu votata la chiusura dei manicomi. Nonostante l’ombra del terrorismo funestasse la vita pubblica e colpisse in modo particolare Torino, proprio lì cominciarono sperimentazioni di apertura della città alla scuola e della scuola alla città, a dimostrazione che i momenti di crisi possono portare grandi innovazioni, se circolano idee all’altezza delle sfide del tempo.
Alfieri ebbe un ruolo pubblico di grande rilievo per un quarto di secolo e raccontava felice che Torino era passata dall’essere vissuta da ragazze e ragazzi come grigia e noiosa città del declino industriale da cui fuggire, a luogo di attrazione per i giovani di tutta Europa, come lo era Barcellona.
Credo che la qualità del suo ruolo di costruttore culturale derivasse dalla sua grande curiosità intellettuale e dal suo amore per l’arte e la bellezza, ma anche dalla grande attenzione che ha sempre prestato verso il linguaggio e le narrazioni dentro le quali ci muoviamo.
Nel lungo colloquio con Steve Della Casa, che anima La città che non c’era, afferma: “La questione dell’uso che si fa delle parole mi sta particolarmente a cuore perché il mio mestiere d’origine mi ha reso sensibile al cambiamento di rappresentazione mentale della realtà (che sta sotto a quello lessicale) da parte delle persone o dei gruppi con cui ho avuto a che fare. Se il cambiamento è avvenuto, il lavoro è stato utile; altrimenti è andato sprecato”.
E poi: “L’importanza cruciale del modo in cui si pensa il mondo e se ne parla esce dai laboratori di psicologia sperimentale per entrare prepotentemente, e in posizione preminente, in ambienti quali la politica, la pubblica amministrazione, l’economia. Ogni volta che imposto il discorso in questi termini con persone appartenenti a questi mondi, mi scoraggio nel constatare lo smarrimento di chi mi ascolta, come se si trattasse di una faccenda che nulla ha da spartire con il loro lavoro. (…) Jerome Bruner, grande psicologo della cultura, alla fine della sua lunga carriera si convinse che il modo naturale di funzionare della mente è proprio la messa in forma di racconto dei dati di realtà; la sua convinzione che molto dipenda nei nostri comportamenti da come ci ‘raccontiamo’ la realtà credo sia del tutto fondata. Mentre è evidente che la difficoltà dimostrata da molti politici ad accettare questo modo di pensare deriva dalla convinzione che i ‘racconti’ siano cose poco serie mentre la ‘realtà’ è tutt’altra cosa. (…) Una volta, durante gli incontri ai quali ero stato chiamato per parlare del ‘caso Torino’, quando ho detto che nella nostra città erano cambiate le parole, mi sono sentito obiettare: ‘A Torino sono cambiati i fatti, non le parole’”.
Trasformazioni che durano
E ancora, tornando alle fondamenta che rendono possibili le trasformazioni, aggiunge: “Oltre a ipotizzare che la mente dell’uomo, per predisposizione innata, mette il mondo in forma di narrazione, quel geniale psicologo disse anche che ciò che conta per l’essere umano è il ‘significato’ delle cose, un termine diverso da ‘rappresentazione’, ma coincidente nella sostanza. Il significato, dice Bruner, sta all’incrocio tra epistemologia e ontologia. Per semplificare, possiamo dire che l’epistemologia è il dato di realtà, mentre l’ontologia è l’interesse, l’investimento emotivo che dimostriamo nei confronti di quel dato di realtà. Il capire, e cioè il costruire significati, è quindi una medaglia a due facce: su una c’è la cognizione e sull’altra l’emozione (se qualcuno ti dice che la prima di queste due facce è più importante della seconda, capisci subito che è un economista o un ingegnere o un certo tipo di politico (…). Se non c’è emozione, la cognizione non entra nella nostra ‘carne’; se non c’è cognizione, l’emozione svapora in brevissimo tempo”.
L’attenzione verso la costruzione di narrazioni capaci di alimentare trasformazioni non effimere, Alfieri l’aveva sperimentata anche da dirigente scolastico e da formatore all’istituto regionale di ricerca, sperimentazione e aggiornamento educativi (Irrsae) Piemonte, dove lavorò dal 1985 al 1995. Ricordo un suo documento in cui sosteneva che gli insegnanti di una scuola dovrebbero costruire e condividere a lungo narrazioni orali su ciò che vanno proponendo e sperimentando prima di arrivare a scrivere i documenti di indirizzo previsti dalla norma. In quel testo arrivava a consigliare un tale percorso anche al ministro della pubblica istruzione, perché provvedimenti legislativi ed eventuali riforme non cadessero nel vuoto.
Scuola e vita
Che la scuola sia sempre rimasta al centro della sua attenzione nonostante il suo impegno in istituzioni artistiche della città, lo dimostra la pubblicazione, nel 2013, di Strade parallele. La scuola, la vita. Un libro che raccoglie un lungo dialogo con suo nipote Leonardo Menon, capace a sedici anni di individuare con lucidità ciò che non funziona nella scuola superiore: “Cosa penserebbero dei normali studenti seduti ai banchi se ogni giorno avessero a che fare con una persona che non dimostra un minimo attaccamento a quello che dice? Si chiederebbero senza dubbio perché sono lì. (…) Io penso che in cima alla classifica delle caratteristiche necessarie per diventare un bravo insegnante ci sia la passione, capace di far scaturire quella scintilla che, nella maggior parte dei casi, noi ragazzi non cogliamo”.
Nonostante le aspre critiche che Leonardo Menon non lesina alla scuola, il dialogo non si limita alla denuncia, ma avanza proposte concrete sulla formazione degli insegnanti e la trasformazione degli spazi di apprendimento.
“Quando parlo di passione intendo anche quella di insegnare, non solo quella verso la materia che si insegna”, continua Menon. “Secondo me una persona che intende intraprendere una carriera d’insegnamento deve farsi una domanda di questo tipo: ‘Ma ho davvero voglia di insegnare?’, ‘Ne sarei in grado?’ (…) Qui entra in ballo il sistema di formazione e come si riconoscono dei potenziali insegnanti. Sicuramente non con dei concorsi che analizzano esclusivamente le conoscenze teoriche, peraltro assolutamente indispensabili (…) Penso che un valore prezioso per un bravo insegnante sia quello di essere in grado di immedesimarsi nei ragazzi a cui si rivolge (…) Suggerisco, prima ancora di prendersela con noi ragazzi, di farsi un esame di coscienza”.
Qualcuno crede di essere il solo a ragionare, saper parlare e capire come nessuno. Ebbene, persone così, se le apri, sono vuote
Credo che Fiorenzo Alfieri abbia desiderato dare voce alle critiche di suo nipote perché affrontavano alla radice l’impressionante rinuncia allo studio che continua a caratterizzare il nostro paese, dove la scuola troppo spesso appare ripiegata in se stessa e la fatica a rinnovarsi è accentuata dalla scarsa valorizzazione del lavoro delle e dei docenti che si impegnano e sperimentano.
Per ragionare su tutto Alfieri sceglie la strada più lunga, mettendo in rotta di collisione due immagini: da una parte la scuola raccontata da Paola Mastrocola, dall’altra quella filmata da Vittorio De Seta, in quel capolavoro d’inchiesta sociologica che fu Diario di un maestro, andato in onda sulla Rai nel 1973, quando 15 milioni di persone si emozionarono davanti al racconto di un maestro elementare che nella periferia romana si scontrava con l’istituzione perché credeva nei ragazzi che la scuola dava per persi.
A partire da quella visione, attualissima ancora oggi, Alfieri racconta a suo nipote un tipo di scuola impegnato, impegnativo, esigente e vitale, che caratterizzava le migliori esperienze degli anni settanta e che è ancora presente in molte scuole di base. Luoghi che tra enormi difficoltà e irresponsabili tagli continuano a offrire un’educazione di qualità a bambine e bambini. I problemi peggiorano con il crescere dell’età e, ragionando su un tipo di scuola capace di appassionare alla conoscenza, Alfieri racconta il laboratorio scientifico come esempio ed esperienza concreta dove ragazze e ragazzi possono allenarsi a ragionare, avvicinandosi ad argomenti come l’etologia. Osservando come alcuni pesci difendono le loro uova in un acquario, apprendono, infatti, “un modo di guardare che può essere applicato a infiniti altri casi”.
Un modello
Fiorenzo Alfieri propone per la formazione un modello a loop e racconta quanto un gruppo di futuri insegnanti, all’università, si appassionò partecipando a un laboratorio in cui al centro c’era il ragionare. Partendo da una presa di contatto con un fenomeno fisico come il galleggiamento, i partecipanti avevano sviluppato una ricca conversazione, che è sempre “il migliore ambiente possibile per costruire conoscenza, scoprendo l’importanza del come se e passando agevolmente dal macro al micro: due atteggiamenti fondamentali nello studio delle scienze”.
Il problema è che, nello stupore di quegli studenti verso un metodo che li metteva in gioco in prima persona, c’era la drammatica constatazione di una carenza, perché troppi erano e sono ancora oggi le ragazze e ragazzi che attraversano tutti gli anni della scuola e dell’università senza mai incontrare il dialogo e la discussione come fondamenti del conoscere, esperienza che li porterà a riprodurre inesorabilmente, se un giorno si troveranno a insegnare, un modello passivo e di pura trasmissione.
Al termine di quel lungo colloquio che oggi ci appare come un lungimirante manifesto pedagogico scritto a quattro mani, Alfieri conduce il giovane Leonardo Menon a Siracusa, dove in tre serate il nonno propone al nipote la visione di una commedia e due tragedie greche. Ed è ragionando intorno a Le donne al parlamento, a Edipo re e ad Antigone che il dialogo si conclude con le parole di Sofocle: “Qualcuno crede di essere il solo a ragionare, saper parlare e capire come nessuno. Ebbene, persone così, se le apri, sono vuote”.
Una bella provocazione non solo per chi insegna, di cui siamo grati a Fiorenzo Alfieri.