Combattenti dell’Esercito siriano libero a Deir al-Zor, il 13 maggio 2013. (Khalil Ashawi, Reuters/Contrasto)

E così Francia e Regno Unito l’hanno spuntata: minacciando di ricorrere al veto, hanno impedito l’estensione dell’embargo Ue sulla vendita di armi alla Siria, e dal primo giugno saranno liberi di sostenere militarmente i ribelli dell’Esercito siriano libero. La risposta della Russia, principale alleato di Damasco, non si è fatta attendere: Mosca ha annunciato che onorerà il contratto con il governo di Bashar al Assad per la vendita dei temibili sistemi antiaerei e antimissile S-300, complicando enormemente le prospettive di un intervento militare esterno. Secondo Londra, Parigi e Mosca, questa escalation dovrebbe aumentare le probabilità di raggiungere una soluzione pacifica alla conferenza di Ginevra a metà giugno. Il dottor Stranamore si starà sbellicando dalle risate.

Il comportamento degli attori coinvolti sembra difficile da spiegare con la razionalità politica. Francia e Regno Unito rischiano di compromettersi in un altro conflitto altrui, dopo aver dimostrato di non essere in grado di gestire le conseguenze del loro intervento contro Gheddafi in Libia: il paese è ancora privo di un potere centrale e ostaggio di gruppi armati rivali, e la conseguente destabilizzazione del Sahel continua nonostante il costoso dispiegamento francese in Mali - i recenti attentati in Niger sono un segnale inquietante. È difficile pensare che le considerazioni umanitarie bastino a giustificare un rischio simile, soprattutto alla luce della freddezza degli Stati Uniti che osservano con imbarazzo mentre le loro “linee rosse” vengono oltrepassate impunemente e il vicino Iraq torna a livelli di violenza che non si vedevano dai tempi dell’occupazione. La Russia associa la propria immagine a quella di un dittatore sanguinario per non perdere l’onore e una piccola base navale a Tartus. La Turchia fa a pezzi la sua politica di “zero problemi con i vicini” e rischia di accendere la polveriera curda per mantenere il suo ruolo simbolico di faro della primavera araba. Che fine ha fatto la Realpolitik?

Eppure, come nota Nafeez Ahmed sul Guardian, c’è una piccola macchia sulle carte dove tutte queste linee si uniscono: è il ricchissimo giacimento di gas di Pars, nel Golfo persico, a metà tra le acque territoriali di Iran e Qatar. Teheran ha un accordo con Iraq e Siria per costruire un gasdotto che trasporti il gas di Pars sulle sponde del Mediterraneo e da lì al mercato europeo. Doha ha un progetto rivale che passerebbe attraverso l’Arabia Saudita, la Giordania, una Siria senza Assad e la Turchia, con la stessa destinazione finale. Ankara ne è uno sponsor entusiasta, data la sua intenzione dichiarata di diventare l‘“hub euroasiatico dell’energia”. La Russia ha da tempo stretto un patto d’acciaio con l’Iran per contrastare i tentativi dei paesi sunniti del Golfo e dei loro alleati occidentali di rompere il suo quasi monopolio sulle forniture all’Europa. La Germania, che non appoggia il piano franco-britannico, è collegata alla rete russa dal gasdotto Nord Stream. Gli Stati Uniti, da quando hanno scoperto che le proprie riserve di gas di scisto e altri idrocarburi non convenzionali potrebbero renderli indipendenti dalle importazioni dal Golfo, non sono più cosi motivati a immischiarsi in una regione che negli ultimi dieci anni ha messo a dura prova il mito della loro supremazia militare globale.

Certamente i motivi della rivolta siriana vanno ben al di là della lotta tra le potenze regionali per il controllo delle riserve energetiche del Medio Oriente. Ma non si può non notare che lo scoppio della guerra civile nel marzo 2011 segue di pochi mesi l’inizio dei negoziati tra Damasco e Baghdad per la costruzione del gasdotto di Pars. Senza il supporto finanziario e militare di Russia e Iran da una parte e del Qatar e dei suoi alleati dall’altra, difficilmente il confronto tra Assad e i suoi oppositori sarebbe arrivato a provocare le oltre ottantamila vittime che fanno giustamente inorridire l’opinione pubblica mondiale.

Se la Francia, il Regno Unito e i loro alleati europei hanno davvero intenzione di giocare a un gioco da grandi come la guerra del Medio Oriente, faranno bene a dotarsi presto dei mezzi appropriati: una capacità di proiezione della forza che non posseggono più da decenni e la volontà politica di usarla, e una saggia diplomazia regionale di cui non si vedono i segni, dato l’atteggiamento schizofrenico e ipocrita nei confronti della domanda di adesione all’Ue di un attore chiave come la Turchia. Altrimenti c’è una soluzione più efficace che mandare casse di armi a un coacervo di milizie virtualmente incontrollabili: rendere inutile la lotta per il controllo delle forniture di gas all’Europa con una politica energetica mirata a ridurre i consumi e le importazioni. Il fracking, le centrali nucleari e le incertezze delle fonti rinnovabili pongono dei rischi da non sottovalutare, ma non sono niente in confronto a quello di una guerra totale nella regione più pericolosa del mondo.

Gabriele Crescente è l’editor italiano di Presseurop.eu.

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