La decisione di candidare Franco Marini per il Quirinale non è solo una sconfitta di Pier Luigi Bersani. È una disfatta e avrà conseguenze pesanti su tutto il Partito democratico. È una decisione che dopo il riuscito remake di Grasso e Boldrini riapre pesantemente la porta alla vecchia politica, cancellando con un colpo di spugna i criteri di “competenza e cambiamento” enunciati dallo stesso Bersani. E suggella la rottura definitiva con il suo rivale interno, Matteo Renzi.

Questa volta Beppe Grillo ha ragione a gridare all’inciucio e a denunciare il fatto che Bersani e Berlusconi con una telefonata hanno deciso il successore di Giorgio Napolitano. Una classica operazione di palazzo, nella quale il segretario del Pd ha fatto esattamente il contrario di quello che voleva evitare: offrire al Cavaliere una rosa di nomi dalla quale potesse scegliere il più gradito.

Ma già nel fine settimana gli italiani avevano potuto capire chi è il netto vincitore del duello tra Berlusconi e Bersani: il Cavaliere, che a Bari davanti a un tripudio di sostenitori e bandiere sprizzava di euforia e dettava le condizioni, mentre Bersani partecipava in giacca e cravatta a una manifestazione contro la povertà, parlando alla periferia di Roma a qualche centinaio di persone.

La scelta di Marini, che già mezzo secolo fa era iscritto alla Democrazia cristiana, puzza di vecchio. Un ottantenne ripescato dopo la sua recente sconfitta elettorale. Marini  appartiene alla casta dei sindacalisti generosi nel concedere pensioni anche a se stessi. Infatti da 25 anni incassa una pensione Inps di 2.500 euro, frutto della famigerata legge Mosca del 1974, in base alla quale migliaia di funzionari di sindacati e partiti hanno potuto beneficiare di pensioni agevolate.

Marini, personificazione della prima repubblica, potrebbe essere eletto già alla prima votazione, franchi elettori permettendo. La rabbia nella base del Pd potrebbe anche montare. Senza dubbio Bersani per  l’elezione di Marini pagherà un prezzo altissimo. Forse spera ancora che in cambio potrà guidare quel governo di minoranza sul quale ha insistito tanto.

In verità anche il secondo candidato, Stefano Rodotà - pur lontanissimo da Marini - è legato alla vecchia politica. È stato eletto parlamentare già 35 anni fa, ha fatto tre legislature alla camera e una al parlamento europeo, è stato presidente del Pds e vicepresidente della camera, membro del consiglio d’Europa e presidente dell’autorità garante per la privacy. Ed è un’anomalia tutta italiana che per il settennato al Quirinale sia gli alternativi dell’M5s sia le forze tradizionali candidino due ottantenni.

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