Forse l’immagine più simbolica di questi giorni è il patetico abbraccio tra Enrico Letta e Pier Luigi Bersani a Montecitorio. Un abbraccio nel segno della nostalgia per un partito che non esiste più. Un partito di sinistra con un forte bagaglio ideologico svuotato solo in un anno.

Un Pd che alle ultime elezioni era sicuro di vincere ma è riuscito a malapena a evitare una sconfitta umiliante. Con Pier Luigi Bersani convinto di poter gestire una situazione ingarbugliata, commettendo l’errore imperdonabile di proporre Romano Prodi al Quirinale. Con Enrico Letta costretto a salvare la faccia a un partito in grave crisi d’identità e spodestato impietosamente, dopo appena dieci mesi, dal segretario Matteo Renzi. Che miracolosamente ha avuto il sostegno di tutti quelli che fino a pochi mesi prima lo avevano avversato.

Spiazzata e rassegnata la sinistra del partito. “La mia é una sfiducia di fatto”, sostiene Pippo Civati in perfetto politichese mentre vota la fiducia. E Stefano Fassina spiega le sue contorsioni: “Il mio voto di fiducia non è il conferimento di una delega in bianco”. Il sindaco di Firenze ha compiuto in breve tempo due miracoli. A tre mesi dall’elezione a segretario si è insediato a palazzo Chigi. E gli sono bastati pochi mesi per frantumare ogni resto di quell’ideologia che per decenni era la colla del più importante partito della sinistra.

Ora il decisionismo, visto per anni con sospetto, si è tramutato in virtù. L’Italia esausta e delusa dalla politica si consegna nelle mani del rottamatore. Non conta il programma: l’immagine, la freschezza, il ritmo veloce, il linguaggio giovane e il piglio decisionista vincono sulla perplessità di milioni di italiani. Renzi offre se stesso come programma. Ci sono dubbi, ma ognuno sa che questa sarà comunque l’ultima spiaggia.

Molti preferiscono vedere Renzi più come fenomeno nuovo che come uomo politico. Consegnano le poche speranze rimaste nelle mani di un premier postideologico che promette cambiamenti radicali, li stordisce con gli annunci e dà l’impressione di non fermarsi mai. Ora il ritmo della politica è scandito dai tweet.

Il 26 febbraio, in una scuola di Treviso, il premier scherza con gli alunni, canta l’inno con loro, li esorta: “Se qualcosa non va, scrivetemi a matteo@governo.it”. I contestatori che gli lanciano delle arance non capiscono di fargli un favore. Non sanno che l’ideologia è morta e sepolta.

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