Nella notte tra il 19 e il 20 luglio, cinque giorni dopo la strage di Nizza, il parlamento francese ha prorogato per la quarta volta lo stato di emergenza, che durerà quindi fino alla fine di gennaio del 2017. Dichiarato per la prima volta dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, lo stato di emergenza dà ampi poteri alla polizia in materia di perquisizioni e di obbligo di domicilio coatto, consente al governo di vietare le manifestazioni e inasprisce le pene per i reati legati al terrorismo.

Rispetto alle condizioni già in vigore prima dell’attentato di Nizza, sono state accolte diverse misure proposte dall’opposizione, come le perquisizioni dei bagagli e dei veicoli durante i controlli d’identità anche senza la richiesta di un magistrato.

La nuova formula è il risultato di un difficile compromesso tra la necessità per il governo di reagire (pur rimanendo nei limiti dello stato di diritto e in quelli fissati a febbraio dal Consiglio di stato), le pressioni dell’opposizione di destra (che accusa l’esecutivo guidato da Manuel Valls di non fare abbastanza nella lotta al terrorismo) e infine l’esigenza per il governo di rassicurare un’opinione pubblica messa a dura prova dalla serie di attentati di matrice islamista che hanno segnato gli ultimi anni e all’interno della quale le tensioni cominciano a farsi pericolosamente sentire, come ha sottolineato di recente Eric Joszef.

La questione della sicurezza e delle risposte da dare al terrorismo è sempre stato uno dei punti deboli della sinistra francese

Mancano infatti meno di dieci mesi alle elezioni presidenziali e poco di più alle legislative. La campagna elettorale sta per cominciare, anche se i potenziali protagonisti, il presidente uscente François Hollande e il leader del partito dei Repubblicani ed ex capo dello stato Nicolas Sarkozy, non hanno ancora dichiarato se saranno o meno candidati nelle primarie che i rispettivi partiti devono organizzare. Intanto gli altri candidati alzano i toni sui temi della sicurezza, sperando così di togliere spazio al Front national di Marine Le Pen.

La questione della sicurezza e delle risposte da dare al terrorismo è sempre stato uno dei punti deboli della sinistra francese, facile preda degli attacchi della destra, che su questo terreno ha meno scrupoli, e soprattutto dell’estrema destra, che ha gioco facile nel proporre soluzioni radicali e nell’alimentare il clima di tensione che cresce insieme agli attentati.

Ora che è emerso che gli autori delle ultime stragi sono persone che non erano né sospette né schedate, il clima è un misto di rassegnazione e di fatalismo (“dobbiamo abituarci a vivere con la minaccia permanente degli attentati”). Ma anche di rabbia sorda nei confronti dell’incapacità delle autorità di prevedere, reprimere e sconfiggere il radicalismo islamico, tanto più se opera di “cani sciolti”.

Un’impotenza sottolineata dall’ultimo attacco e da diversi rapporti pubblicati di recente, tra i quali spicca quello pubblicato a maggio dalla commissione parlamentare d’inchiesta sulla lotta al terrorismo. Il rapporto punta il dito contro le carenze dell’intelligence francese, in particolare sull’attività “di prossimità”, cioè la raccolta di informazioni sul terreno – soppressa sotto Sarkozy e mai pienamente ripristinata – oltre all’assenza di procedure snelle in caso di crisi grave, come la sera degli attacchi del 13 novembre.

Ma, soprattutto, il rapporto critica quello che anche Le Monde definisce “il terribile errore ideologico” e che consiste nel parlare di “guerra al terrorismo”, di revoca della cittadinanza e di identità nazionale come hanno fatto e fanno il governo e molti politici francesi. Un atteggiamento denunciato da diverse organizzazioni, tra cui l’Action droits des musulmans, un’associazione che aiuta molte persone costrette al domicilio coatto a far fronte alle difficoltà causate dal provvedimento.

I nuovi limiti allo stato di diritto

L’atteggiamento dei politici più che alla pacificazione fa appello alla paura, e finisce per aumentare le divisioni interne a una società già sull’orlo di una crisi isterica e quasi pronta a consegnare le chiavi del potere all’estrema destra. A questo si aggiunge l’incapacità cronica dei dirigenti francesi di portare aventi un discorso inclusivo nei confronti delle minoranze e della religione.

Questo “stato di emergenza permanente” nel quale la Francia vive da otto mesi – con le limitazioni che implica allo stato di diritto – ha prodotto pochi risultati concreti e, come ricorda ancora Le Monde, “77 persone sono ancora sotto domicilio coatto”, benché nessun elemento abbia giustificato l’apertura di un’inchiesta o di una procedura giudiziaria nei loro confronti. “Le 3.594 perquisizioni amministrative (compiute senza il mandato di un giudice) hanno consentito di aprire 600 procedimenti giudiziari e di sequestrare 756 armi di cui 75 armi da guerra. Oltre 950 persone sono oggi indagate dai giudici antiterrorismo. E, da quando sono state ristabilite le frontiere, il 13 novembre scorso, 48 milioni di persone sono state controllate e a 28mila è stato rifiutato l’accesso al territorio”.

Ma la sproporzione tra le limitazioni allo stato di diritto e i risultati ottenuti – in soli cinque casi le perquisizioni svolte hanno dato luogo a un’inchiesta giudiziaria – è enorme. Con il tempo, però, anche a causa di interventi più incisivi in senso garantista da parte delle giurisdizioni amministrative, il numero delle perquisizioni si è abbassato molto.

In questo contesto, va però notato che né l’assassino di Nizza né quello dei due poliziotti uccisi a Magnanville erano stati toccati dai provvedimenti introdotti dallo stato di emergenza; mentre “il principale attentato sviato in Francia dal 13 novembre – quello che stava preparando Reda Kriket, arrestato il 24 maggio – è stato sventato grazie ai metodi giudiziari e di polizia classici, senza rapporto con lo stato di emergenza”.

In sostanza, come conclude il rapporto della commissione d’inchiesta, “lo stato di emergenza e l’operazione militare Sentinella hanno avuto una portata limitata sulla sicurezza nazionale”. Eppure, di fronte a queste prove, il clima politico è tale per cui i deputati hanno comunque sciolto la commissione parlamentare incaricata di sorvegliare lo stato di emergenza il 3 giugno. Lo stesso giorno è stata votata una legge sul terrorismo e sul processo penale che dà più poteri al ministro dell’interno e che avrebbe dovuto consentire l’uscita dallo stato di emergenza. E il 18 luglio hanno approvato diversi emendamenti al disegno di legge sulla “libertà, l’indipendenza e il pluralismo dei mezzi d’informazione” che introducono nuovi limiti alla protezione delle fonti giornalistiche, come denuncia il principale sindacato dei giornalisti.

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