Guido Harari è uno dei fotografi musicali più importanti in Italia. Lo scorso 14 aprile ho assistito alla lectio magistralis che ha tenuto con la photo editor e curatrice Giovanna Calvenzi al Maxxi di Roma.

Il presupposto per me è questo: fare il fotografo musicale è uno dei mestieri più belli del mondo. Se la musica occupa un posto rilevante nella tua vita, un posto enorme, insomma se alcuni dischi sono la migliore compagnia che tu possa cercare, avere la possibilità di lavorare con gli oggetti del desiderio – i musicisti – ti rende goloso e ingordo come un bambino in un negozio di caramelle.

Questo è quello che pensi all’inizio.

Poi arriva la realtà e gli artisti sono spesso antipatici, capricciosi, non vogliono avere nulla a che fare con te, sono degli stronzi (si può dire?). Però con alcuni è possibile entrare veramente in contatto, stabilire una relazione umana e non solo professionale che aggiunge qualcosa di speciale e unico al mestiere che fai.

Le storie di cui ci ha reso partecipe Harari parlano proprio di questo. Riportare gli aneddoti sarebbe macchinoso e funzionerebbe di meno rispetto all’esperienza dell’incontro. Ma provo comunque a raccontarvi qualcosa.

È il 1965. Il velodromo Vigorelli di Milano ospita la più grande band del momento e della storia del pop, i Beatles. Harari è tra il pubblico, ha 12 anni, è già un grande consumatore di dischi rock’n’roll e questo evento arriva come una folgorazione. La fotografia non è ancora tra i suoi interessi. Solo qualche anno dopo capisce di voler tentare questa strada, avendo come riferimento la copertina di Rolling Stone con un ritratto di John Lennon scattato da Annie Leibovitz nel 1971. Qui la connessione fotografo-personaggio è evidente e a suo modo semplice, un obiettivo che Harari cercherà di perseguire in ogni lavoro.

La sua opera è vasta e non starò qui a fare un elenco di tutte le star che si sono fermate davanti alla sua macchina fotografica. Per citarne solo alcune Frank Zappa, Peter Gabriel, David Crosby, Bob Dylan, Lou Reed e Laurie Anderson.

Il momento di svolta nella carriera di Harari è il reportage del tour di Fabrizio De André con la Premiata Forneria Marconi nel 1979. Il cantautore genovese è riluttante alla dimensione live, ma con una grande band alle spalle e un pubblico in delirio diventa un vero e proprio animale da palcoscenico. Però quando non suona non c’è, scompare, e le occasioni per ritrarlo sono rare. Però quando ci sono viene fuori qualcosa del genere.

Fabrizio De André. (Guido Harari, Contrasto)

Col culo esposto a un radiatore,
s’era assopito il cantautore

De André ama molto questo scatto in cui si vede come un uomo qualunque, come uno dei personaggi delle sue canzoni, e da allora con il fotografo comincia un reciproco rapporto di stima e fiducia.

Intorno all’idea di artista antipatico e maldisposto si sviluppa invece la storia di Tom Waits e di una delle foto più celebri di Harari.

Siamo a Parigi, è il 1992. Harari deve fotografare Tom Waits. Come succede in questi casi, ha un tempo molto limitato per concludere il suo servizio e Waits non ha assolutamente voglia di fare il modello. Perde tempo, mangia, si sporca e Harari non conclude granché.

Finito il suo turno, arriva un fotografo francese che monta il set con i fondali. Il cantautore si mette in posa annoiato e appena il fotografo si ferma per cambiare il rullino scappa, strappando un telo nero del set e portandolo con sé. Qui Harari vede un momento decisivo, ora o mai più: insegue Waits, che trova finalmente un modo per recitare una parte e fuggire dalla noia della promozione.

Tom Waits. (Guido Harari, Contrasto)

Nella lunga e ricca carriera di Harari ricordo anche il progetto Italians in cui ritrae alcune delle personalità più illustri e speciali del nostro paese, come Alda Merini, Margherita Hack, Giovanni Agnelli, Giorgio Armani. E negli ultimi anni si è dedicato anche a un lavoro di archivio e da curatore per la pubblicazione di libri, come The beat goes on, dedicato al racconto fotografico della vita di Fernanda Pivano.

In chiusura del nostro incontro, Harari ci lascia con una frase che racchiude in maniera semplice ed efficace la sua visione: “Quello che devi vedere è il personaggio, non la mano del fotografo”. E l’unico approccio possibile, per lui, è trovare le storie. Le foto verranno da sé.

Il prossimo appuntamento con le lectio magistralis di fotografia al Maxxi di Roma sarà il 21 aprile con Letizia Battaglia.

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