Le due guerre mondiali hanno rappresentato anche una spinta verso l’emancipazione femminile. Senza uomini, mandati a combattere, molte donne si sono ritrovate da sole, a fare lavori che nessuno prima aveva mai pensato fossero in grado di fare. Nel 1945 più di due milioni di donne erano impiegate nell’industria della guerra: costruivano navi, aerei, automobili e armi. Proprio come ci ha raccontato Hayao Miyazaki in Porco Rosso (ambientato tra le due guerre) con il personaggio di Fio, la ragazzina che lavora nell’officina del signor Piccolo e che con grandi idee e capacità ripara l’idrovolante di Porco.
Anche per Lee Miller la guerra diventa un’occasione per mettersi alla prova.
Cominciamo con ordine. Lee Miller nasce nel 1907 a Poughkeepsie, una città nello stato di New York. Studia belle arti e si specializza in scenografia e illuminazione di scena. Le cronache raccontano che un giorno, a Manhattan, la ragazza rischia di essere travolta da un’automobile, ma un passante la salva. L’uomo non è uno qualsiasi: è Condé Montrose Nast, editore di Vogue e Vanity Fair. Miller è bella, ha stile e Nast le offre un contratto da modella per Vogue. Succede così, come in un film.
Alla fine degli anni venti, lascia New York per andare a Parigi, dove vuole lavorare come apprendista con Man Ray. Anche se l’artista è restio ad avere collaboratori nel suo studio, Miller diventa la sua modella e la sua compagna, e impara tutto quello che il maestro ha da insegnarle sulla fotografia. Per un paio d’anni frequenta attivamente l’ambiente surrealista parigino; in Le sang d’un poète di Jean Cocteau (1930) interpreta la statua che prende vita.
Le sang d’un poète
Presto, dopo un paio di anni, la ragazza è stanca degli artisti parigini e torna a New York, dove finalmente comincia a fare la fotografa per conto suo, senza nessuno a farle ombra. Nel 1934 conosce Aziz Eloui Bey, un uomo d’affari egiziano, che diventa suo marito e con cui si trasferisce al Cairo. La storia non dura molto, anche se dà occasione a Miller di scattare alcune delle sue foto più surrealiste e personali.
Gli anni trenta passano in viaggio, tra la Francia e il Regno Unito, al fianco di un nuovo amore, il pittore e curatore Roland Penrose. Si ritrovano insieme a Londra allo scoppio della guerra, nel 1939. Penrose viene richiamato alle armi e Miller va a New York. Qui ricomincia a lavorare con Vogue, stavolta come fotoreporter di guerra. Tra il 1939 ed il 1945 entra a far parte del London war correspondents corp ed è una delle quattro donne accreditate ufficialmente dall’esercito degli Stati Uniti come corrispondente.
Questa svolta radicale come fotogiornalista è al centro della mostra Lee Miller: a woman’s war (all’Imperial war museum di Londra, fino al 24 aprile), che la identifica definitivamente come una delle fotografe di guerra fondamentali del ventesimo secolo. L’allestimento documenta lo sguardo di Miller sulle donne prima della guerra, durante e dopo.
Con questa divisione, i curatori vogliono sottolineare l’evoluzione di Miller come persona e fotografa, dalla vita da modella alla Parigi surrealista, fino all’immersione totale nel racconto della guerra che riesce a portare avanti in maniera personale, soffermandosi sul cambiamento della vita delle donne, tra le privazioni, il dolore, le macerie e l’inaspettata possibilità di essere indipendenti, perché sole, per la prima volta.
Le foto di Lee Miller offrono un punto di vista originale sul carico, fisico ed emotivo, che le donne hanno dovuto sopportare durante la guerra e anche su quanto la guerra stessa sia stata capace di cancellare temporaneamente le differenze tra i sessi. La storia delle donne che fotografa è anche la sua storia: Miller esprime il suo vero potenziale sul campo di battaglia. È presente durante il blitz su Londra e durante la liberazione francese, segue i profughi in fuga dai bombardamenti e, subito dopo la ritirata dei nazisti, entra nei campi di concentramento di Buchenwald e Dachau. Sconvolta da ciò che vede e documenta nei campi, telegrafa a Vogue: “Vi imploro di credere che è tutto vero”.
Nonostante sia finita, la guerra lascia dei segni profondi, che portano la fotografa a soffrire di depressione e ad abusare di alcolici per il resto della sua vita. Ma come ci racconta la mostra londinese, Miller va ricordata soprattutto per avere vissuto con determinazione in un mondo di uomini, riuscendo a conquistare il suo spazio e a rivelare il meglio di sé.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it