Micah P.Hinson è magrissimo. Indossa un paio di occhiali con una montatura molto grande che quasi gli nascondono la faccia. Fuma molto, passando dalle sigarette alla pipa come se niente fosse. Parla veloce, con la fretta di chi vuole condividere i suoi pensieri. “Se qualcosa di brutto può accadere, accadrà”, ripete ogni tanto facendo appello a suo modo alla legge di Murphy. Forse per giustificare le sue disavventure, che lo perseguitano da quando era ragazzino. Prima l’alcol e le droghe da giovanissimo, poi i problemi alla schiena che l’hanno reso dipendente dagli antidolorifici.
L’estate scorsa l’ultima odissea: durante il tour in Spagna un incidente d’auto a Tarragona gli ha paralizzato le braccia per diversi mesi. Micah P. Hinson però è soprattutto un artista, uno dei pochi veri folksinger rimasti in circolazione. Con
[sei album][1] alle spalle, in questi anni è stato uno degli artisti più interessanti della scena statunitense. E anche se ha solo 31 anni, ha una voce che sembra scavare nella terra ogni volta che si avvicina a un microfono. Una voce che arriva dal passato, dai tempi di Johnny Cash e John Denver.
Siamo nel giardino del [Circolo degli artisti][2] di Roma, poche ora prima del concerto che ha chiuso il tour italiano del cantautore statunitense. Anche stavolta, niente band. Solo voce e chitarra. “Il tour è andato molto bene”, racconta Micah. “Dopo l’incidente in Spagna, a causa dei problemi alle mani ho dovuto imparare di nuovo a suonare la chitarra da zero. E per questo ogni tanto mi capita di sbagliare qualche accordo. Ma il pubblico italiano non ha mai smesso di applaudire, di coccolarmi. Tornerò presto a suonare nel vostro paese, con una band tutta italiana. Ne farà parte anche Francesco, il mio tour manager”.
Cosa si prova a stare sul palco da soli? È più difficile intrattenere il pubblico senza una band al proprio fianco?
Per me è la cosa più facile del mondo. Se un artista non sa stare sul palco da solo e suonare con la sua chitarra non vale molto. Se hai bisogno della band, vuol dire che fai solo musica. Se invece fai canzoni, ti basta uno strumento o anche solo la tua voce. E le persone vanno ai concerti per ascoltare canzoni. È questo il mio habitat naturale. Ma mi piace comunque suonare con la band perché mi dà la possibilità di esplorare soluzioni diverse.
Durante il tour hai suonato anche delle canzoni inedite. Stai lavorando a un nuovo album?
Sì, ho cominciato a registrarlo ma non è ancora finito. Un sacco di gente suonerà in questo disco, sto radunando l’esercito amico. C’è perfino Andy Rourke, il [bassista degli Smiths][3], oltre a Johnny Farina dei Santo & Johnny. Ho registrato alcune cose sulle colline fuori Austin, l’anno scorso. Sono tredici canzoni che hanno un suono diverso dal passato, sembrano ballate del settecento. Ricordano un po’ il mio album [The baby and the satellite][4]. Ma ci sono poche parti di batteria e le voci giocano un ruolo molto più centrale rispetto al passato. Nel 2013 lo finirò e lo pubblicherò con una nuova casa discografica, ancora non so quale.
Abilene, il posto in cui sei cresciuto, ha influenzato molto le tue canzoni. Perché?
Ho sempre voluto scappare da Abilene. È una città che porta alla disperazione. Non a caso molte persone si rifugiano nella religione, nella droga o finiscono per fare figli a sedici anni. Di tutti gli amici con cui sono cresciuto ad Abilene, solo due non sono morti, in galera o tossicodipendenti. Crescere in questa desolazione ti porta alla ricerca disperata di un dio. E per dio intendo qualsiasi cosa: la religione, ma anche una donna, la droga, o l’alcol. Anche io ci sono passato, ho provato ad autodistruggermi per tanti anni. E anche da queste esperienze sono venute fuori le mie canzoni, in modo quasi inconsapevole. La musica è stata una conseguenza della desolazione che mi circondava. Quello che mi ha salvato.
Cosa ne pensi degli Stati Uniti oggi? Hai votato alle elezioni?
Sembrerà strano, ma a modo mio credo di essere un idealista, uno che crede ancora nel sogno americano. Ma come tante persone non sono soddisfatto di chi mi rappresenta. Alle elezioni non ho votato. Se devo essere sincero, non mi fido né di Barack Obama né di Mitt Romney.
Quali sono gli artisti che ti hanno influenzato di più?
Sono molti. Dai geni del folk come John Denver e Johnny Cash ad artisti contemporanei come i Twilight Sad e i Neutral Milk Hotel. Sono anche un grande fan di Bob Dylan. Visions of Johanna è una delle canzoni più belle mai scritte. Ma un musicista deve stare attento alla voce di Dylan. Quando ti entra dentro, non te la togli più. E rischi di diventare un imitatore.
Come sei cambiato dai tuoi esordi nel 2004? Come si gestisce il proprio talento nel corso degli anni?
Sono successe molte cose. Prima di ogni mio disco, nella mia vita accade sempre qualcosa di importante, nel bene o nel male. Prima ci sono state la droga e la bancarotta. Poi i problemi alla schiena. Nel 2007 il matrimonio con Ashley Bryn. Dopo il mio ultimo incidente in Spagna pensavo di ritirarmi. Ma fare questo mestiere, se così possiamo chiamarlo, è come rispondere a una chiamata. Sei quasi costretto a farlo. Riguardo al talento, devo dirti che io non ne ho proprio. Il valore della musica che faccio viene solo dalle persone che mi ascoltano. Non scriverei canzoni se la gente non venisse ai miei concerti per divertirsi, piangere o mandarmi a quel paese. Il talento arriva dall’accettazione del tuo pubblico. Se cominciassi a pensare che sono bravo, il mio ego diventerebbe troppo grande. Non riuscirei più a camminare per strada. Sarebbe la mia fine.
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