Nick Cave racconta la sua tragedia nel nuovo album Skeleton tree
La tragedia è sempre stata il filo conduttore della vita e della musica di Nick Cave, fin dall’11 ottobre del 1978. Quel giorno Nick, 19 anni, si trovava insieme alla madre nel commissariato di St. Kilda, vicino a Melbourne. La polizia l’aveva fermato per un piccolo furto. Mentre stava per uscire dall’edificio, arrivò una telefonata: gli dissero che il padre, Colin Frank Cave, era appena morto in un incidente stradale.
Suo padre era un uomo molto severo, un insegnante che credeva ciecamente nella disciplina e nella cultura come soluzione a tutti i problemi del mondo. Nick, che da ragazzino aveva già un carattere turbolento e ribelle, non aveva un buon rapporto con lui ma la scomparsa di Colin creò nella sua esistenza “un vuoto, uno spazio in cui le mie parole hanno cominciato a galleggiare, ad accumularsi e a trovare il loro scopo”, come ha ammesso lo stesso cantautore in un’intervista all’Independent.
La tragedia, la violenza e la morte sono diventate il filo conduttore delle sue canzoni. E continuano a esserlo oggi, come dimostra il nuovo album Skeleton tree, uscito il 9 settembre, la cui registrazione è stata completata dopo la morte del figlio di 15 anni, Arthur, precipitato da una scogliera nel luglio del 2015 mentre era sotto effetto dell’lsd.
Va detto, non c’è alcun interesse morboso nel ripercorrere la vita di Nick Cave. È solo che, nel caso del cantautore australiano, è impossibile separare vita e arte. Anche impegnandosi, nessun cantautore potrebbe somigliargli. Ha un approccio alla musica così totalizzante che è difficile anche solo avvicinarsi alla sua intensità, in studio come sul palco.
Una vita in fuga
Per colmare il vuoto lasciato dalla morte del padre, Nick Cave ha riempito le sue giornate di esperienze, sempre sul filo del rasoio: ha provato tutte le droghe possibili, si è consumato in storie d’amore autodistruttive e, soprattutto, ha scritto tanto. Canzoni, ma anche racconti, romanzi e sceneggiature. Ha viaggiato molto, quasi volesse fuggire il più possibile dalla sua Australia: Londra, Berlino Ovest, Brasile (dove si è rifugiato alla fine degli anni ottanta in cerca di redenzione dopo essersi disintossicato) e infine Brighton.
L’attrazione per l’oscurità è stata sempre un tratto distintivo della musica di Cave. Gli esempi in questo senso si sprecano. Il primo disco in cui compare il suo nome è Door, door dei Boys Next Door, la band post punk della quale era il cantante. L’album, uscito nel 1979, si chiudeva con una canzone intitolata Shivers, un’ironica riflessione sull’adolescenza scritta dal chitarrista Rowland S. Howard, che si apre con un’invocazione al suicidio. Una volta messa nelle mani di Cave, l’ironia è andata a farsi benedire e il pezzo è diventato una ballata funerea.
Poi, l’anno successivo, il gruppo ha cambiato il nome in The Birthday Party. Le pulsioni autodistruttive di Cave, che insieme agli altri componenti della band era già un consumato eroinomane, sono andate avanti a briglia sciolta. I concerti dei Birthday Party, più che per l’ottima musica, rimanevano impressi per quello che succedeva dentro e fuori dal palco: risse, overdosi e blasfemia.
A distanza di anni, ci sono rimaste grandi canzoni gotiche come Release the bats o Nick the stripper. Ma anche diversi episodi grotteschi. Un esempio? Ecco la cronaca stringata del concerto del 23 settembre del 1981 all’Underground, un locale di New York, ricostruito da Ian Johnston nella biografia I semi del male.
Il concerto comincia verso mezzanotte in questa lussuosa discoteca. Il pubblico è composto dai clienti del locale e da otto fan, quattro arrivati da Chicago. Nick Cave indossa dei pantaloni dorati alla Iggy Pop, glieli ha regalati un fan inglese. I pantaloni si strappano alla prima canzone. Mick Harvey, ubriaco, urla insulti agli spettatori, che non vogliono che la band suoni nel locale. Durante il brano King ink, Nick salta in mezzo al pubblico e avvolge il cavo del microfono attorno al collo di una donna, urlandole: “Esprimiti!”. Le poche persone rimaste nel club se ne vanno. Il concerto viene sospeso dai gestori. Nick Cave aveva invitato Iggy Pop, che effettivamente è venuto.
La maturità e la ricerca di dio
Da solista, o per meglio dire insieme ai Bad Seeds, Nick Cave ha progressivamente acquistato più maturità nel trattare il tema del dolore. Alla furia punk degli esordi, si sono aggiunte le suggestioni letterarie, da John Milton a Edgar Allan Poe, ma anche la teologia, una delle grandi ossessioni del musicista australiano.
Le sue canzoni si sono progressivamente riempite di riferimenti biblici. The mercy seat, il pezzo che apre il disco del 1988 Tender prey, descrive l’attesa di un condannato a morte e sovrappone l’immagine della sedia elettrica a quella del trono di dio in paradiso.
In The good son, l’album registrato in Brasile dopo la disintossicazione dall’eroina, c’è uno degli esempi più alti della sua capacità di scrittura: The weeping song, composta e cantata insieme a Blixa Bargeld. Nick e Blixa incarnano le figure di un padre e di un figlio (come ha ricostruito in modo brillante Luca Moccafighe nel libro Nick Cave. And the devil saw the angel) che fanno un viaggio su una barca a remi per osservare le sofferenze umane e riflettere sul ciclo della vita. È un brano struggente, dal sapore quasi dantesco.
Dopo la disintossicazione, Nick Cave ha smussato gli angoli della sua musica, accentuando pian piano il suo lato intimista, ma non ha perso il gusto della tragedia. Ha fatto, per esempio, un concept album sugli omicidi, Murder ballads, forse il suo più grande successo discografico (soprattutto grazie al duetto con Kylie Minogue in Where the wild roses grow). Tra i brani di Murder ballads c’era anche Stagger Lee, ancora oggi uno dei suoi cavalli di battaglia dal vivo, arrangiamento di un vecchio brano folk sull’omicidio di Billy Lyons da parte di “Stag” Lee Shelton.
Negli ultimi anni, dopo essersi trasferito a Brighton con la moglie Susie Bick e i due figli avuti con lei, Arthur e Earl, l’oscurità sembrava aver allentato un pochino la presa sulla sua vita. Nello splendido Push the sky away, uscito nel 2013, la rabbia e la tristezza degli anni giovanili non erano scomparse, ma si respirava un’atmosfera di pacificazione imminente.
Il nuovo album
La morte del figlio Arthur sembra aver riportato il tema del lutto al centro della sua musica. La composizione dei pezzi di Skeleton tree, stando a quanto ha dichiarato lo stesso Cave nel documentario che racconta la lavorazione del disco, One more time with feeling, in realtà è cominciata prima della tragedia. Ma è inevitabile legare l’atmosfera che si respira in questo disco a quello che è successo poco più di un anno fa.
Musicalmente, il nuovo album segue la strada già indicata dal precedente Push the sky away e ne accentua alcune caratteristiche, soprattutto dal punto di vista sonoro. Le chitarre sono quasi assenti, sostituite dai sintetizzatori e dagli archi arrangiati dal polistrumentista Warren Ellis, diventato il vero deus ex machina dei Bad Seeds dopo l’abbandono di Mick Harvey. La struttura dei pezzi è irregolare e la voce di Cave è recitativa, sempre più lontana dal cantato punk e blues degli anni giovanili.
Skeleton tree si nutre di grandi spazi e di suggestioni cinematografiche: è un viaggio nell’abisso, ma anche un’avventura nello spazio profondo. Per certi versi, ricorda Blackstar di David Bowie, nel modo in cui si fa influenzare dal cantautore statunitense Scott Walker. Risente sicuramente delle colonne sonore scritte da Cave e Ellis per il regista John Hillcoat.
Jesus alone, la canzone che apre l’album, sembra un’elegia funebre, nella quale il suo lutto personale (”You fell from the sky, crash landed in a field”) assume una valenza universale. Il pezzo migliore del disco è Girl in amber, costruita intorno alla splendida immagine della ragazza intrappolata nell’ambra (”Girl in amber trapped forever, spinning down the hall”). La donna potrebbe essere proprio la moglie di Cave, Susie. Lo stile del pezzo ricorda i bozzetti pop sporcati di musica contemporanea che l’amico Blixa Bargeld ha scritto insieme a Teho Teardo.
Magneto, altro brano notevole, allude al passato da eroinomane di Cave. In Anthrocene una ritmica elettronica quasi alla Flying Lotus dipinge uno scenario apocalittico e riflette sul modo in cui gli esseri umani hanno stravolto il clima del pianeta Terra.
I need you, brano guidato da un cupo sintetizzatore che fa venire in mente Jean-Michel Jarre, ha un incedere marziale. Nell’album la parola “love” ricorre in modo ossessivo e c’è un perenne senso di perdita, di distacco. Il figlio Arthur non è mai citato, ma è difficile non pensare a lui.
La chiusura bucolica di Skeleton tree, dove si sentono per la prima volta una chitarra acustica e una batteria, è ambientata di domenica mattina e sa di catarsi. Per la prima volta, emerge un piccolo spiraglio di luce, dopo tanta tenebra. Peccato che sul finale la canzone sfumi velocemente, lasciando intatto il senso di turbamento provato all’inizio dell’album.
È ancora presto per dare una collocazione precisa a Skeleton tree nella discografia di Nick Cave. Probabilmente non è all’altezza dei suoi massimi capolavori, ma non è neanche un disco minore. È un album guidato da una forte urgenza espressiva, forse è un po’ affrettato in alcuni passaggi e pecca di varietà (non a caso è brevissimo, solo otto pezzi). A tratti è inafferrabile, ostico, ma ha lo stesso fascino della dolorosa eternità che affronta.
Gli anni passano, ma la sostanza non cambia: la musica di Nick Cave resta un grande e affascinante enigma. E questo è uno dei complimenti migliori che si possano fare a un autore di canzoni.