Lorde, Oceanic feeling
Nell’ultimo mese sono arrivati due dischi pop molto attesi: Happier than ever di Billie Eilish (pubblicato il 30 luglio) e Solar power di Lorde (uscito il 20 agosto). Questi album hanno due cose in comune: riflettono su quanto sia difficile gestire fama e popolarità (idea non troppo originale) e dimostrano una certa fascinazione per i suoni acustici e vintage. E questo stupisce, perché Eilish e Lorde hanno rispettivamente 19 e 24 anni. Forse è un po’ presto per interrompere la loro ricerca e rivolgere lo sguardo al passato.
Ma se Happier than ever di Eilish riesce a dosare la nostalgia e regala qualche ottimo pezzo (per esempio Getting older e Therefore I am), Solar power mostra limiti più evidenti. Lorde l’ha definito il suo “weed album”, facendo riferimento alla rilassatezza quasi hippie che fa da collante tra i pezzi, e ha citato tra le principali influenze del nuovo corso gruppi folk-rock degli anni sessanta come The Mamas & the Papas. Più che sintetizzatori e drum machine, a dominare i brani della cantante neozelandese stavolta sono le chitarre (in gran parte acustiche) e i coretti sixties.
Non ci sono pezzi particolarmente ritmati, tutto resta rarefatto, forse troppo. Si sente il tocco del produttore Jack Antonoff, che a tratti sembra cercare le stesse atmosfere fumose create in passato insieme a Lana Del Rey (per esempio in Stoned at the nail salon), ma il risultato non può essere lo stesso. A tratti Lorde, come nel singolo Solar power (che fa venire un po’ in mente i Primal Scream e lascia il segno grazie a una melodia orecchiabile) e nell’ingenua Leader of a new regime, si gioca maldestramente la carta dell’ambientalismo, ma resta a metà strada tra impegno e ironia.
Solar power non è un disco brutto. Lorde non ha disimparato a scrivere canzoni, come dimostra la conclusiva Oceanic feeling, nella quale si percepisce finalmente un po’ di tensione. Ma non riesce mai ad affondare il colpo e sembra girare a vuoto in attesa della grande ispirazione che non arriva. E, come Happier than ever di Billie Eilish, ha l’aggravante di non guardare avanti, di inseguire l’introspezione in modo troppo forzato e autoreferenziale. È vero, è pop da classifica, ma anche nel pop ogni tanto bisogna rischiare un po’.
Darkside, Narrow road
Nicolás Jaar mi mette in difficoltà. Tutte le volte che pubblica un album a suo nome o con un progetto parallelo mi chiedo come faccia a trovare suoni così belli, così inquietanti e difficili da replicare. I lavori di Jaar possono essere più o meno riusciti, ma hanno sempre un’impronta riconoscibile.
Forse Spiral, il nuovo capitolo del sodalizio artistico con il polistrumentista Dave Harrington, non è all’altezza del precedente Psychic, uscito nel 2013. E infatti la critica l’ha accolto in modo freddo, forse troppo. Eppure anche stavolta il duo regala tanti spunti, costruisce spazi profondi grazie a sintetizzatori, drum machine e chitarre elettriche, creando una sorta di sabba senza tempo, tanto nostalgico (echi di Pink Floyd vengono fuori continuamente) quanto avventuroso.
La struttura a spirale dei brani, la mancanza di climax che a molti critici non è piaciuta è invece una cifra stilistica originale. Il lavoro sulle percussioni e sul groove è sottile, eppure magistrale. Nicolás Jaar è un grande artista, con il raro pregio dell’unicità.
Le altre canzoni da non perdere questo weekend:
Jungle, Talk about it Nel loro nuovo disco, Loving in stereo, i Jungle hanno collaborato di nuovo con il produttore Inflo (quello dei Sault). E uno dei pezzi migliori è proprio Talk about it, quello registrato insieme a lui.
Joy Orbison, sparko Dopo vari singoli ed ep, il musicista elettronico Joy Orbison ha pubblicato il suo primo album, Still slipping vol. 1. Ed è ottimo.
Angel Olsen, Gloria Perché Angel Olsen ha fatto un disco di cover anni ottanta con dentro Gloria di Umberto Tozzi (anche se nella versione di Laura Branigan)? Chi lo sa, ma fa simpatia.
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