The War On Drugs, I don’t live here anymore
Non si capisce come, ma ogni volta ci riescono. Gli War On Drugs sono capaci di rendere la nostalgia credibile, di far suonare attuale musica che dovrebbe sapere solo di stantio. Alla band di Adam Granduciel questo trucchetto riesce ormai da troppo tempo (dal loro disco d’esordio nel 2008) per essere un caso. Granduciel, oltre a essere un ottimo autore di canzoni, sa sfruttare bene le potenzialità dello studio di registrazione, e ragiona come un produttore.
Per esempio il lavoro che la band di Philadelphia fa sulle chitarre, che suonano sempre calde e stratificate, è notevole. Prendete l’arpeggio che apre l’ultimo singolo I don’t live here anymore. Sembra di averlo sentito già cento volte, eppure funziona, ti trascina dentro al pezzo fin da subito. Anche il testo del brano, come spesso capita, è pieno di citazioni. Già nel primo verso Granduciel si definisce “A creature void of form”, una creature senza forma. È un passaggio preso pari pari da Shelter from the storm, un brano di Bob Dylan pubblicato sul capolavoro del 1975 Blood on the tracks. E in seguito, rievocando quella che sembra una vecchia storia d’amore, il cantante ricorda un vecchio concerto di Bob Dylan dove con la sua ragazza aveva ballato sulle note di Desolation row.
Il suono di I don’t live here anymore, però, più che dylaniano è springsteeniano (un’altra grande passione degli War On Drugs): ha un incedere marziale, una batteria che più anni ottanta non si può e un piglio da stadio che forse non era mai stato così esplicito nella musica della band. Il coro finale, registrato con l’aiuto della band pop newyorchese Lucius, conferma quest’impressione. Il nuovo disco del gruppo uscirà il 29 ottobre. Prepariamoci a un bel ripasso della storia del rock.
Moor Mother, Shekere
La statunitense Camae Awae, in arte Moor Mother, ha un approccio multidisciplinare all’arte. È una musicista, ma anche una poeta e un’attivista. Ha un gruppo jazz, ma ha anche una band punk, oltre che un progetto hip hop. Qualcuno potrebbe ricordarla come uno degli ospiti dell’ultimo album dei Sons of Kemet.
Tutti questi generi sono frullati con classe e inquietudine nel suo nuovo disco, dall’evocativo titolo Black encyclopedia of the air. Un lavoro che scandaglia tutta la tradizione della musica nera, con un occhio particolare al jazz e al rap e un’estetica afrofuturista. Questo brano, Shekere, che s’intitola come uno strumento percussivo tradizionale dell’Africa occidentale, cerca di scacciare il dolore e la paura dalla comunità nera. E vale anche, perché no, per tutte le altre comunità sotto assedio nel mondo.
Le altre canzoni da non perdere questo weekend:
Low, White horses. Non ho scritto ancora niente sul nuovo bellissimo disco dei Low, Hey what. Ma c’è un motivo. Presto ne riparleremo con calma.
Robert Levon Been, Mercy of man. Il fondatore dei Black Rebel Motorcycle Club alle prese con la colonna sonora del film Il collezionista di carte. Ne esce bene, benissimo.
Alexis Taylor, House of the truth. Dal sesto album solista di Alexis Taylor degli Hot Chip. Un pezzo delicato, quasi jazzato.
P.S. Ho aggiornato la playlist su Spotify. Buon ascolto!
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it