Si è scoperto che Elizabeth O’Bagy, analista dell’Institute for the study of war, di cui la scorsa settimana abbiamo pubblicato un articolo uscito sul Wall Street Journal, lavora anche per la Syrian emergency task force, un gruppo di pressione vicino ai ribelli che spinge per un intervento statunitense in Siria. Quindi non è una fonte indipendente.

Il 5 settembre il New York Times ha pubblicato una foto in prima pagina tratta da un video in cui si vedono dei combattenti ribelli siriani che stanno per sparare in testa a dei soldati catturati. Nell’articolo c’è scritto che il video è stato girato nell’aprile del 2013, mentre si è scoperto che in realtà risale alla primavera del 2012.

In un’intervista

al quotidiano belga Le Soir, Pierre Piccinin, professore di storia e compagno di prigionia di Domenico Quirico, ha detto: “Non è il governo di Assad che ha usato il gas sarin alla periferia di Damasco. Ne siamo certi in seguito a una conversazione che abbiamo ascoltato”. Interpellato, il giornalista della Stampa ha risposto: “È folle dire che io sappia che non è stato Assad a usare i gas”. Quirico ha spiegato di aver solo ascoltato attraverso una porta socchiusa una conversazione in inglese fra tre persone sconosciute in cui si affermava che l’operazione con il gas era stata fatta dai ribelli per spingere gli Stati Uniti a intervenire. Troppo poco, dice giustamente Quirico, per sostenere che questa sia la verità.

La guerra in Siria viene combattuta anche sul terreno dell’informazione, dei social network, dei comunicati, delle interviste, dei video e delle foto messe in circolazione per dimostrare una tesi o il suo opposto. Gli inviati dovrebbero servire proprio a controllare e a verificare i fatti ma, colpiti dalla crisi economica, i grandi giornali e i network internazionali ne hanno ridotto drasticamente il numero, e i pochi ancora sul campo rischiano la vita ogni giorno in un conflitto sempre più violento. Oggi siamo quasi al buio, con pochi strumenti per capire cosa stia succedendo in Siria.

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