Oggi in Italia il sindaco di una qualunque città sa che, a meno di imprevisti, governerà ininterrottamente per cinque anni. E sa anche che, se non farà troppe stupidaggini, questi cinque anni potranno diventare dieci. Ha il tempo per progettare, sperimentare, rischiare, perfino fare scelte impopolari ma lungimiranti, senza doversi preoccupare di un ritorno elettorale a breve termine. In più la legge è pensata in modo da garantire una maggioranza solida e stabile. E questa capacità di governare avendo davanti a sé il tempo per farlo è estesa, di nuovo salvo imprevisti, a tutti gli assessori.
Forse non è così azzardato sostenere che in questi anni in cui le turbolenze politiche hanno provocato frequenti (sei dal 2003 a oggi) cambi di presidenti del consiglio, ministri, sottosegretari, di fatto riducendo l’azione del governo nazionale, il paese si è retto, e si sta reggendo, anche sull’azione concreta e quotidiana delle centinaia di sindaci della fitta rete di città piccole, medie e grandi che formano il paese.
Certo, il recente scandalo dell’azienda romana dei trasporti dimostra che neanche le amministrazioni locali sono al riparo da vizi e corruzione. Ma c’è un diverso grado di prossimità, una relazione stretta tra cittadini e politici che fa sentire gli elettori in qualche modo anche corresponsabili di quello che non va.
Un politologo moderato come Benjamin Barber si è spinto a immaginare che siano i sindaci a governare il mondo, sostenendo che il futuro della democrazia passa dalle città e non più dagli stati. Ma allora perché i sindaci, perlomeno in Italia, non sono più coraggiosi nello sperimentare e nel prendere decisioni importanti per le loro città?
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