Imprenditori, banchieri, presidenti del consiglio, ministri, esponenti dell’opposizione, amministratori locali. Le intercettazioni sono diventate una parte importante della vita politica italiana. Un fatto che non ha uguali, in termini di ampiezza e sistematicità, in nessuno dei paesi europei e occidentali a cui ci piace confrontarci.

Le intercettazioni sono strumenti d’indagine, mezzi per la ricerca di prove. Passarle ai giornali è illegale ed è illegale pubblicarle quando le indagini sono ancora in corso o, peggio, quando le intercettazioni non hanno alcuna rilevanza penale. Senza entrare nel merito dei contenuti (è ovvio che se vengono pubblicate è perché spesso viene detto qualcosa di sbagliato), dovremmo chiederci chi decide di darle ai giornali e perché. In nome di una presunta trasparenza, le intercettazioni forniscono in realtà un quadro estremamente parziale, quindi opaco. Sono frammenti decontestualizzati e accuratamente selezionati. Viene fatta trapelare una telefonata ma non quella prima, o quella dopo, in cui magari il protagonista dice cose di segno opposto. Oppure non si fa trapelare la telefonata di un altro, che sullo stesso argomento può aver detto cose ben peggiori.

Pubblicare indiscriminatamente le intercettazioni non è giornalismo, è un commercio a scopo politico. Ma soprattutto è uno dei modi con cui si stanno liquidando le garanzie costituzionali. Non c’è più dibattito o scontro sui programmi e sulle scelte: basta la manciata di secondi di un’intercettazione per annullare il processo democratico e il confronto pubblico.

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