Cinque anni fa Brian Acton, uno dei due fondatori di WhatsApp, ha fatto un colloquio per essere assunto da Facebook e non è stato scelto. Oggi è diventato ricco vendendo la sua azienda proprio a Facebook, per 19 miliardi di dollari: il colloquio di lavoro più costoso della storia. Ma è anche vero che forse, se fosse stato assunto, non avrebbe mai inventato WhatsApp.
L’altro fondatore di WhatsApp, Jan Koum, ha 38 anni ed è nato in un piccolo villaggio non lontano da Kiev, in Ucraina. È arrivato in California con la famiglia quando aveva sedici anni. Vendendo la sua quota dell’azienda ha guadagnato più o meno 6,8 miliardi di dollari, cifra equivalente al budget annuale di San Francisco. Una quantità di soldi scandalosa, l’ha definita qualcuno. Talmente grande che è complicato perfino usarla per fare della beneficenza. “Non puoi mica dare via i tuoi soldi e basta”, spiega Kevin Kelly, studioso di cultura digitale, “hai bisogno di una struttura, di persone che si assicurino che i soldi vadano effettivamente alle persone giuste”.
La fondazione creata da Bill Gates e dalla moglie per la loro attività filantropica ha 1.194 impiegati, quasi 24 volte quelli di WhatsApp. Intanto, però, i nuovi miliardari della Silicon valley potrebbero cominciare con il pagare meglio i loro dipendenti. A maggio ci sarà l’udienza per il processo intentato da circa centomila lavoratori del settore tecnologico contro Apple, Google, Intel e Adobe. A partire dal 2005, i dirigenti di queste aziende (insieme ad altre tra cui eBay, Intuit e Pixar) si accordarono segretamente e illegalmente per non soffiarsi reciprocamente i dipendenti e per mantenere bassi gli stipendi.
Si calcola che nel giro di cinque anni i mancati aumenti salariali dei lavoratori di queste aziende siano stati equivalenti a circa 9 miliardi di dollari. Quasi la metà di quanto Facebook ha speso per comprare WhatsApp. “A parole siamo favorevoli alla meritocrazia”, ha spiegato un dirigente della Intel, “in realtà trattiamo tutti nello stesso modo all’interno di determinate fasce retributive”. Che poi non sarebbe una cattiva idea, se valesse anche per i manager e non solo per i loro dipendenti.
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