Sul New York Times il primo articolo uscì l’8 aprile, il giorno dopo l’inizio dei massacri. “Il Ruanda precipita nell’anarchia”. Era scritto da William Schmidt, che però si trovava a Nairobi, in Kenya. La parola “genocidio” comparve per la prima volta quindici giorni dopo, in un editoriale non firmato: “In Ruanda si sta svolgendo quello che sembra essere un genocidio”. Ma il 25 aprile Ronald Steel, professore di relazioni internazionali alla University of Southern California, scriveva: “Bisogna evitare di intervenire nelle guerre civili degli altri. Questa guerra è una guerra territoriale ed etnica. Per quanto orribile possa essere, non è un ‘genocidio’”.
Su Le Monde la prima notizia uscì il 7 aprile, e parlava genericamente di “violenti scontri”. Il quotidiano francese cominciò a parlare di genocidio il 15 aprile, nella pagina dei dibattiti, in un commento di Bernard Taillefer, direttore della Banca popolare del Ruanda, che chiedeva all’occidente di non lasciar continuare “un vero e proprio genocidio”. Il 27 aprile, venti giorni dopo l’inizio di tutto, Le Monde ospitò un’altra testimonianza, questa volta del volontario di una ong: “Ventimila, trentamila, centomila morti? Nessuno è in grado di misurare l’ampiezza del massacro che da tre settimane insanguina il Ruanda”.
Oggi sappiamo che in quei cento giorni furono uccise ottocentomila persone. Ed è incredibile ricordare che all’inizio le Nazioni Unite erano sul posto, ma rinunciarono a intervenire, e andarono via durante il massacro lasciando nel paese solo poche centinaia di caschi blu. La disattenzione dei mezzi d’informazione europei e statunitensi, che tranne poche eccezioni non mandarono inviati e seguirono le notizie distrattamente, ebbe un ruolo importante nel mancato intervento dei governi per impedire il genocidio. Vent’anni dopo, sarebbe bello poter dire che tutti hanno imparato la lezione, e che nessun nuovo Ruanda potrà più avvenire sotto i nostri occhi.
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