“Tra un anno cosa resterà di questo entusiasmo per la libertà d’espressione? La gente si opporrà alla chiusura dei giornali? Delle edicole? La gente comprerà ancora i giornali?”. Gli interrogativi di Luz, uno dei disegnatori di Charlie Hebdo (un giornale) sopravvissuti alla strage del 7 gennaio, sono stati pubblicati su Les Inrockuptibles (un altro giornale) ed escono questa settimana anche su Internazionale (ancora un giornale).

Luz definisce Charlie “una fanzine da liceali” che, suo malgrado, è diventata un simbolo nazionale e internazionale. Senza entrare nel merito delle considerazioni di Luz – giuste, sofferte e dolorose – molto al margine di tutta la storia di Charlie Hebdo c’è da notare che in un’epoca in cui i giornali sono dati per spacciati, il mondo intero si è stretto intorno alla redazione di un piccolo settimanale satirico francese stampato su carta.

Certo, mai avrebbero voluto diventare un simbolo, soprattutto lasciandosi alle spalle dieci compagni morti. Ma è un dato di fatto che i giornali sono, più di altri mezzi di comunicazione, capaci di diventare segni di appartenenza, bandiere da esporre.

I giornali servono a informarsi e a farsi un’opinione, ma contribuiscono anche a definire l’identità di chi li legge. In questo senso la previsione della loro scomparsa potrebbe essere largamente esagerata. Quindi, per rispondere alla domanda iniziale di Luz: sì, la gente comprerà ancora i giornali, almeno finché saranno fatti bene.

Questo articolo è stato pubblicato il 16 gennaio 2015 a pagina 3 di Internazionale, con il titolo “Simbolo”. Compra questo numero | Abbonati

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