Cittadinanza
“Quando entriamo in classe, molti di noi si trovano davanti bambini e ragazzi figli di immigrati che, pur frequentando le scuole con i compagni italiani, non sono cittadini come loro. Se nati qui, dovranno attendere fino a diciott’anni senza nemmeno avere la certezza di diventarlo, se arrivati qui da piccoli non hanno la possibilità di godere di uguali diritti nel nostro paese. Sono oltre 800mila coloro che vivono questa condizione. Non possiamo fare finta di niente e giocare con le parole”, ha scritto il maestro Franco Lorenzoni lanciando sul sito di Internazionale la proposta di uno sciopero della fame per chiedere che il governo italiano metta fine alla sua indecente esitazione e faccia approvare al più presto la legge di riforma della cittadinanza. Tutti parliamo di ius soli, ma non è corretto.
Lo ius soli (dal latino, “diritto del suolo”) prevede che chi nasce in uno stato ne ottenga automaticamente la cittadinanza, indipendentemente da quella dei genitori. È in vigore negli Stati Uniti, in Canada, in quasi tutta l’America Latina. In diversi paesi europei (Francia, Germania, Irlanda e Regno Unito) è in vigore ma con varie forme e alcune condizioni.
E molte condizioni ci sarebbero anche in Italia se fosse finalmente approvata la legge ferma al senato. Sarebbe uno ius soli temperato: la cittadinanza sarebbe concessa solo ai bambini nati in Italia che abbiano almeno uno dei due genitori che vive legalmente qui da più di cinque anni. E anche a bambini arrivati in Italia entro i 12 anni di età e che abbiano frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni, completando un ciclo scolastico (ius culturae). Si tratterebbe insomma di uno ius soli edulcorato.
Nonostante questo la sua approvazione è ostaggio di una destra che riesce a orientare il dibattito pubblico, e che trova partiti di governo disposti a lasciarsi condizionare e pronti a rinunciare a norme minime di civiltà.
Questa rubrica è stata pubblicata il 13 ottobre 2017 a pagina 9 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati