Le statue sono simboli. Ci raccontano chi eravamo quando le abbiamo volute, ci dicono chi siamo oggi quando le difendiamo o, al contrario, quando le abbattiamo. Ci indicano anche quanta strada abbiamo fatto, nel bene e nel male, e quanta ne resta ancora da fare. Per questo le statue, i monumenti, i nomi delle strade, sono importanti.
Scriveva l’anno scorso Rebecca Solnit sul Guardian: “Statue e nomi, di per sé, non garantiscono né sostituiscono il rispetto dei diritti umani o la parità di accesso. Sono però parti cruciali dell’architettura che ci circonda, ci dicono chi conta, chi decide, chi sarà ricordato. Alimentano la nostra immaginazione. Danno forma al modo d’interpretare il passato a cui ci rivolgiamo quando decidiamo quale futuro scegliere e chi apprezzare e ascoltare nel presente, quando decidiamo chi è ‘noi’. Che tutto questo stia cambiando implica diverse cose. Chi è ‘noi’ è fondamentale per qualsiasi luogo, e un monumento che celebra i pionieri o gli assassini degli indiani – come fanno molti monumenti in occidente – classifica i nativi come estranei e nemici. Un luogo che onora solo gli uomini definisce le donne come nullità. I colonizzatori spesso cominciano rinominando i luoghi in cui sono arrivati; i vincitori erigono statue a se stessi e alla loro versione della storia. Spesso si parla di questi simboli come se il loro effetto più importante riguardasse le persone che rispecchiano, come se i primi beneficiari di una scuola intitolata a Rosa Parks, per esempio, fossero i bambini neri e in particolare le ragazze nere. Ma è importante anche per quelli che non sono neri o donne. Quello che succede nelle piazze e ai nomi delle strade può essere visto come un equivalente dei movimenti #MeToo, Black lives matter e Idle no more: ci fa ascoltare altre voci e apprezzare altre vite”.
Questo articolo è uscito sul numero 1363 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati
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