L’8 febbraio per Patrick George Zaki comincia il secondo anno di detenzione. È stato fermato il 7 febbraio 2020 appena arrivato all’aeroporto del Cairo. Frequentava un master in studi di genere all’università di Bologna e tornava in Egitto per far visita alla famiglia.
Secondo la ricostruzione di Amnesty international, è stato interrogato per 17 ore, bendato, ammanettato, poi picchiato e torturato con scosse elettriche. Ed è finito nel limbo della detenzione preventiva, in cui si trovano trentamila egiziani e che è la misura punitiva più usata dalle autorità contro quelli che sono considerati oppositori politici.
La legge consente ai giudici di confermare la detenzione per periodi di 45 giorni fino a due anni senza processo. Le accuse a Zaki sono pretestuose e basate su dieci post pubblicati su Facebook da un account che i difensori del ricercatore considerano falso. La vera ragione è l’intimidazione.
In Egitto ci sono sessantamila persone che Human rights watch definisce prigionieri politici. Tra loro attivisti, avvocati, intellettuali e militanti islamisti. Oltre a tanti cittadini comuni, spesso ragazze accusate di immoralità per i video pubblicati sui social network.
Ma quella di Patrick Zaki è una storia anche italiana, non solo egiziana. Perché studia a Bologna e perché la sua vicenda ricorda quella di Giulio Regeni, il ricercatore che il 25 gennaio 2016 fu sequestrato e ucciso al Cairo. Finora il governo italiano non si è mosso in nessun modo per Zaki.
Nel frattempo, però, con una piccola cerimonia non troppo pubblicizzata che si è svolta il 23 dicembrenei cantieri navali del Muggiano, a La Spezia, Fincantieri (azienda pubblica italiana) ha consegnato agli ufficiali della marina militare egiziana la prima di due navi militari acquistate dal Cairo per 1,2 miliardi di euro. A testimonianza dei floridi rapporti commerciali intrattenuti, senza nessun imbarazzo, dall’Italia con l’Egitto.
Questo articolo è uscito sul numero 1395 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati
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