David Randall è morto com’è vissuto, scrivendo, mentre lavorava alla nuova edizione del suo ultimo libro, Suburbia. Era a casa nel Surrey, in Inghilterra, e la mattina del 15 luglio ha avuto un infarto. Aveva settant’anni.
Era una persona davvero speciale, professionalmente e umanamente. Chi legge Internazionale ha cominciato a conoscerlo quasi vent’anni fa: la sua prima column era uscita nel numero del 7 marzo 2003 e spiegava come il web, all’epoca ancora giovane, stesse per trasformare la stampa.
Randall era uno straordinario giornalista, un uomo di “macchina”, come si dice in gergo, di quelli che dietro le quinte mandano avanti intere redazioni. Ma le sue doti si estendevano alla scrittura, sempre brillante e asciutta.
Poi era un teorico dei mezzi d’informazione: ragionava molto, e spesso in modo critico, sul suo mestiere. Ha scritto un libro fondamentale, Il giornalista quasi perfetto, tradotto in Italia da Laterza, un testo che chiunque abbia voglia di fare il cronista dovrebbe leggere.
Le sue riflessioni non si esaurivano negli articoli o nei saggi. Perché Randall era anche un bravo insegnante. Nel corso degli anni aveva tenuto lezioni in giro per il mondo e le tante persone che hanno avuto la fortuna di seguire uno dei suoi workshop al festival di Internazionale a Ferrara ricordano quanto fosse acuto e divertente.
Randall, infine, è stato un mentore, un consigliere, una guida generosa per generazioni di giornalisti, britannici e non solo. Era a lui che ci si rivolgeva per un parere su un nuovo progetto o per un suggerimento professionale. Aveva una rara sensibilità, era curioso, ascoltava i suoi interlocutori con attenzione e sapeva sempre trovare le parole giuste, utili, mai banali.
John Mullin, del Telegraph, lo ha ricordato così: “Non c’è giornale al mondo che con lui non sarebbe stato migliore”.
Questo articolo è uscito sul numero 1419 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati
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