L’epoca degli indirizzi
Deirdre Mask
Le vie che orientano
Bollati Boringhieri, 400 pagine, 25 euro
“Il viale Giulio Cesare mette capo al largo Ermenegildo Fregnetti. E tal è di noi. Amen”. Così Carlo Emilio Gadda ironizzava sulla toponomastica urbana. Di nomi delle strade parla anche questo libro divertente e ben informato che fa riflettere sull’importanza della nozione di residenza nel mondo in cui viviamo.
Senza un indirizzo (com’è il caso di moltissimi abitanti delle baraccopoli) oggi non si riesce ad aprire un conto in banca. Grazie alla mappatura delle residenze in passato sono state combattute epidemie. Non tutte le società sentono il bisogno di nominare le strade: nella Roma antica si procedeva per descrizioni vaghe (“la strada tra i due archi”), a Tokyo ci si orienta con i numeri degli edifici e il progetto di attribuzione dei nomi alle vie del West Virginia è cosa recente e piuttosto discussa. La svolta è avvenuta nell’ottocento nella maggior parte dell’occidente, quando si è affermata una nuova idea di città più razionale, pianificata e socialmente divisa. Nei consigli comunali sono allora cominciate le polemiche che ancora vanno avanti: mantenere i nomi tradizionali, talvolta buffi o osceni, oppure celebrare qualcuno? Ma, in questo caso, chi? In Sudafrica e negli Stati Uniti si scende spesso a manifestare in piazza per il nome di una piazza, mentre i senzatetto, che forse sarebbe meglio chiamare senza indirizzo, esclusi dal sistema, cercano nuovi modi di sopravvivere.
Questo articolo è uscito sul numero 1384 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati