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Le indagini sugli attentati di Parigi

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A Parigi, ora

La ruota panoramica di place de la Concorde, a Parigi, chiusa per motivi di sicurezza, il 14 novembre 2015. (Xavier Laine, Getty Images)

La prima cosa è il nervosismo di un ragazzo italiano che si alza dal tavolo e dice alla ragazza: Paghiamo e torniamo a casa? La fai facile, è tutto bloccato, non ce l’abbiamo un posto dove tornare, per ora. La prima cosa è il nervosismo di questo ragazzo italiano, la seconda cosa la calma di una ragazza francese che si volta verso il nostro tavolo e chiede: Ma non l’avete saputo?

Siamo in un ristorante tailandese di Belleville, sono le dieci e mezza e la francese ci racconta cosa ci siamo persi: Ci sono state sparatorie e attentati a Parigi, ci sono diciotto morti. Poi guarda il suo ragazzo come a cercargli negli occhi una conferma di quello che ha appena detto, e io guardo la mia, che chiede: Ma a Parigi, ora?

A Parigi, ora: ce lo confermano anche le telefonate e i messaggi che cominciamo a ricevere, dagli amici che sono in città, e da quelli che sono in Italia e sanno che siamo qui. È come se fosse scoppiata la bolla di incanto e leggerezza che Parigi regala a chiunque metta piede in città per qualche giorno e la paura comincia a posarsi su ogni cosa come una polvere sottile.

Sugli occhi della ragazza francese, si posa; sulle mani leggermente tremolanti della cameriera tailandese che viene a prendere i nostri soldi e ci invita a lasciare il locale; sulle telefonate a parenti amori amici degli altri clienti.

Verso casa

Ci fanno uscire dal retro, chiudono il locale con gente ancora dentro, la ragazza francese ci dice che è meglio se torniamo a casa e ci aiuta a fermare un taxi: la metropolitana è meglio di no. Riesce anche a sorridere, mentre lo dice. Il tassista che si ferma dice che non può portarci a casa, in rue Chapon, cinque minuti a piedi dal Centre Pompidou: è troppo vicina al Bataclan, il teatro dove i terroristi intanto si sono chiusi insieme a centinaia di ostaggi e hanno cominciato la carneficina.

Ci accordiamo per scendere a Hotel de Ville e proseguire da lì a piedi. La città che attraversiamo in macchina è ora quieta ora deserta ora scossa da sirene. Via via che ci avviciniamo verso il centro aumentano poliziotti, pompieri e militari. A un certo punto ci troviamo fermi in un ingorgo e il tassista ci dice che è perché il Bataclan è dietro l’angolo.

La radio intanto parla di più di decine di morti e lui conferma e ci racconta degli attentatori allo stadio durante la partita Francia-Germania. Arrivati a Hotel de Ville non facciamo in tempo a scendere che un’altra coppia chiede se può salire. Molti, per strada, cercano di fermare un taxi, molti altri vanno di corsa verso casa: dalle abitazioni e dai locali si sentono radio e televisioni e chiacchiere parlare di stato di emergenza e frontiere chiuse.

Sotto casa, turisti giapponesi chiedono a delle signore parigine se la metropolitana funziona, altri ragazzi si muovono con una cartina in mano, tutti cercano di tornare a casa. E tutti, a casa, si portano lo sgomento e la tensione, o almeno è quello che succede a noi, nello studio di rue Chapon, dove ci sorprendiamo a controllare più volte se la porta è chiusa a chiave.

Chiudere le frontiere è giusto, anzi no; è tutta colpa di Hollande, anzi no; i fanatici li riconosci subito, anzi no; Parigi riuscirà a farcela, anzi no

Quello che succede per strada ci arriva con il rumore delle sirene e degli elicotteri, e con le notizie che leggiamo dai telefoni. Facebook ci ha localizzato e chiede se siamo in salvo e ci dice di comunicarlo agli altri. Molti lo fanno ed è così che veniamo a sapere che in città ci sono molti amici, ed è così che tutti cominciamo a scriverci: Stiamo bene, non riusciamo a tornare a casa, qui tutto ok, la metro è chiusa, venite a passare la notte sul nostro divano, abbiamo trovato un albergo, abbracci, state attenti. Su Twitter intanto veniamo a sapere che al teatro Bataclan è in corso un blitz dei militari, e la notizia della fine dell’assedio nelle nostre teste è registrata insieme a quello che ci è sembrato il rumore di un’esplosione.

È il suono che ci accompagna per tutta la notte, insieme a quello delle sirene, a quello delle notifiche del telefono, a quelli negli appartamenti dei vicini, che ci fanno sobbalzare in continuazione.

Alle sette riceviamo le prime telefonate da chi in Italia ha saputo cos’è successo: Come state, dove siete, non si può stare tranquilli da nessuna parte, tornate. La città che non è mai andata a dormire continua la conta dei morti, dei nervi a pezzi, delle linee della metropolitana chiuse, degli amori e degli affetti da tranquillizzare o consolare.

Per strada, la paura della sera prima sembra aver lasciato posto allo straniamento. Non c’è moltissima gente, le auto sono ancora poche, i turisti ancora meno. Nei bar, nelle boulangerie, ai semafori, tutti sono attaccati alle prime pagine dei giornali che parlano di massacro e orrore, tutti hanno una qualche telefonata da fare, tutti parlano di follia, di insensatezza, di dolore. Chiudere le frontiere è giusto, anzi no; è tutta colpa di Hollande, anzi no; i fanatici li riconosci subito, anzi no; Parigi riuscirà a farcela, anzi no.

Una piccola vertigine corre nei discorsi e nelle teste di chiunque associ l’incanto di questa città alle ferocia delle immagini di ieri: qualcuno proverà a superarla con rabbia, qualche sciacallo con la bava alla bocca ha già cominciato a indirizzare la paura verso il mulino del proprio piccolo orizzonte di potere, i più dovrebbero stringersi intorno all’idea che l’estremismo e la barbarie non hanno futuro, mentre la libertà sì, e che la nostra è in gioco perché è in gioco quella di milione di persone in Siria, ovvero in Medio Oriente, siccome la libertà è una faccenda complicata e non ama molto le frontiere.

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