Una mattina di qualche inverno fa, il freddo di Padova aveva seccato i terreni intorno al carcere Due palazzi e gelava il fiato di decine di persone davanti al suo ingresso. Erano giornalisti e familiari di detenuti, ed erano lì per partecipare a un convegno organizzato dall’associazione Ristretti orizzonti. Tra loro c’era una ragazza di diciotto anni. Piccola e magra, era contenta e nervosa per il padre, che doveva intervenire a uno degli incontri. Lui era in prigione da quando lei era nata. Lei non aveva mai mangiato un gelato con lui. Le chiesi qual era stata la cosa più complicata da gestire in tutti quegli anni. Ci pensò un po’ su, poi rispose: “All’inizio è stato il pensiero che mio padre fosse innocente, poi il dover fare i conti con i suoi sbagli, infine il giudizio degli altri. Per tutti sono solo la figlia di un ergastolano. Ho cominciato ad avere meno paura di questo giudizio quando ho capito che il carcere è uno specchio. Giudichiamo i detenuti e le loro famiglie, ma dimentichiamo che stiamo giudicando anche il nostro riflesso”.
Il carcere è uno specchio, e torna utile ricordarlo quando si ha la malasorte, o la curiosità, di affacciarvisi. Nel caso dell’Italia, si scopre presto che l’immagine riflessa è tra le peggiori in Europa, dove ha diversi primati. Per esempio, è il secondo per tasso di affollamento, preceduto da Cipro e seguito da Ungheria e Turchia. Ed è il settimo per numero di detenuti: nelle celle italiane sono rinchiuse sessantamila persone, diecimila in più di quelle che possono contenere. Il tasso di affollamento è del 120 per cento, ma in strutture come quelle di Taranto si raggiunge anche il 200 per cento. È una situazione soffocante, e una delle conseguenze è che dal 2000 a oggi in carcere si sono suicidate 1.065 persone.
Una cosa che l’Italia ha in comune con alcuni stati dell’Unione europa è la crescita enorme del numero di persone recluse. In Francia nel 2000 erano 48mila, oggi sono 74mila; nel Regno Unito si è passati da 64mila a 82mila; in Italia da 53mila a 60mila, ma nel 1990 erano la metà.
Tutto questo è avvenuto nonostante i reati nel tempo siano diminuiti. Cosa spiega allora l’espansione del carcere? Le ragioni sono complesse e vanno cercate nelle crisi economiche che hanno colpito soprattutto la classe media e creato più poveri, nei tagli allo stato sociale e nell’indebolimento della politica. Dal cortocircuito di questi elementi, secondo l’antropologo francese Didier Fassin, nasce l’ossessione per la sicurezza e la punizione. “Gli individui si dimostrano sempre meno tolleranti (…) le élite politiche rafforzano o addirittura anticipano le inquietudini securitarie dei cittadini (…) per trarre benefici elettorali”, scrive in Punire, una passione contemporanea (Feltrinelli 2018). A farne le spese sono per lo più tossicodipendenti, stranieri e poveri.
Alternative
Contro questo uso del carcere come arma classista e di vendetta sociale si è riflettuto molto in Europa. Già nel 1899 Lev Tolstoj scriveva in Resurrezione che “queste istituzioni portano la gente al massimo di vizio e corruzione, cioè aumentano il pericolo”, e che il sistema è irriformabile, visto che “delle prigioni perfezionate costerebbero più di quanto si spende per l’istruzione pubblica e graverebbero ulteriormente, ancora una volta, sul popolo”.
Cinque anni dopo, Filippo Turati diceva alla camera dei deputati: “Le carceri italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta: noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono a goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento dei malfattori”.
Sono parole che ricordano quelle scritte da Altiero Spinelli a Piero Calamandrei nel 1949 in occasione della pubblicazione di un numero speciale della rivista Il Ponte dedicato alla necessità della riforma del sistema penale. Vi si leggono articoli, tra gli altri, di Carlo Levi, Vittorio Foa, Gaetano Salvemini. “Più penso al problema del carcere e più mi convinco che non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale”, scrive Spinelli.
Negli anni ottanta la riflessione sulla detenzione è rilanciata nell’Europa del nord. Il norvegese Nils Christie con Abolire le pene? (Edizioni Gruppo Abele 1985) e l’olandese Louk Hulsman con Pene perdute (Colibrì Edizioni 2001) si scagliano contro l’intero sistema penale. Mentre il norvegese Thomas Mathiesen propone un piano in tre punti per fare a meno delle prigioni: ridurre i limiti massimi di pena; smantellare la struttura carceraria; trasferire le risorse al sistema dell’affidamento ai servizi sociali.
Una buona sintesi di tutte queste posizioni è contenuta nel libro Abolire il carcere (Chiarelettere 2015). Pubblicato nel 2015 da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, è uno dei testi di riferimento dell’abolizionismo italiano, in grado di spiegare il fallimento del carcere e svelare alcuni luoghi comuni duri a morire. Uno è che in gabbia ci siano solo persone pericolose. Non è così: gli assassini, i mafiosi e i trafficanti internazionali di droga sono “a malapena il 10 per cento del totale”. Un altro è che la galera sia un buon deterrente. È vero il contrario: “I reclusi sono destinati in una percentuale elevatissima, più del 68 per cento, a commettere nuovi delitti”. La percentuale scende al 19 per cento tra chi è affidato in prova ai servizi sociali, si legge in uno studio del 2007 curato dall’osservatorio delle misure alternative. “Tuttavia è bene ricordare”, precisano gli autori, “che le persone ammesse alle misure alternative sono ‘selezionate’ con un’attenzione all’affidabilità, una sorta di scrematura che abbassa, almeno in teoria, la possibilità che le stesse persone commettano nuovi reati”.
Un altro luogo comune è che la prigione sia sempre esistita. Nient’affatto: è tra il settecento e l’ottocento che “al posto delle strazianti pene corporali, si sceglie la soluzione detentiva”. Come scrive Michel Foucault in Sorvegliare e punire: “In pochi decenni il corpo suppliziato, squartato, amputato, simbolicamente marchiato sul viso o sulla spalla, esposto vivo o morto, dato in spettacolo, è scomparso”. Le prigioni servivano a riformare un sistema ancora più brutale.
Oggi le si dà per scontate, così come in Italia si dava per scontata la pena di morte prima di Cesare Beccaria, negli Stati Uniti la schiavitù e in Sudafrica l’apartheid. La storia ha dimostrato che le cose potevano cambiare. E allora è davvero tanto difficile immaginare un’alternativa? Manconi e gli altri ci hanno provato, invitando a depenalizzare il più possibile, a cancellare l’ergastolo e il carcere minorile, a ridurre le pene e a favorire misure alternative.
“Le autorità che per ignoranza e demagogia proclamano la guerra alla droga e fanno, o lasciano fare, la guerra ai drogati, sono, temo, complici di violenze terribili”, ha scritto Adriano Sofri. È vero anche nel caso delle guerre alla povertà e all’immigrazione, che finiscono per fare la guerra ai poveri e agli immigrati. Il carcere è la cassa di risonanza di queste violenze. Lo specchio, dove l’immagine riflessa è quella di tutti. L’abolizionismo è lo sforzo di chi ce lo ricorda e immagina delle alternative.
Da sapere
Quanto costa il sistema penitenziario in Italia. “Aumentano lievemente (di circa 17 milioni) i fondi destinati all’amministrazione penitenziaria, che comunque si mantengono anche nel 2019 al di sotto dei 2,9 miliardi”, scrive l’associazione Antigone nel suo ultimo rapporto. Il costo per detenuto passa dai 137 euro del 2018 ai 131 di oggi. I soldi vanno “in particolar modo all’edilizia penitenziaria, che comprende la realizzazione di nuove infrastrutture, potenziamento e ristrutturazione di quelle esistenti”. Il totale delle spese per il personale rappresenta circa il 76 per cento del budget.
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Una versione di questo articolo è uscita sul numero 1307 di Internazionale con il titolo “Prove di utopia in Europa”. Compra questo numero | Abbonati
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