Markus Orths, La cameriera

Voland, 88 pagine, 12,00 euro

Già noto da noi per l’aspro Sala professori (Voland), il quarantenne Markus Orths si collega idealmente alla generazione di scrittori tedeschi e austriaci degli anni sessanta e seguenti, da Handke a Bernhard, per la secchezza di una prosa che enumera e scandisce, ma qui senza commentare, quasi non ce ne fosse più bisogno: i fatti, le cose, parlano già abbastanza.

Un personaggio comune vicino al punto di rottura, le contraddizioni di un umano che non ce la fa, dentro un’alienazione collettiva, e che si sfoga in riti e abitudini, più privati e morbosi della media. Lynn, cameriera d’albergo, ha una madre, sola come lei, e un datore di lavoro a cui fornisce qualche prestazione sessuale. E si fa una amante donna a pagamento, specializzata (anche con gli uomini) in ruoli di penetrazione attiva, con protesi.

L’ha conosciuta attraverso il “vizio” a cui si abbandona: nascondersi sotto i letti dei clienti dell’albergo, “sentire” altre pseudo-esistenze irrisolte e forse infelici come la sua. Non strappa molta vita da queste non entusiasmanti esperienze delle quali non sa fare più a meno; la sua fuga va all’indietro, è la nostalgia di un ventre materno di prima della vita, perché, fuori di lì, di vita non sa trovarne o non ce n’è. La sua è la reazione a un vuoto di esistenze da larve o da zombi, solitarie e incomunicanti, in un contesto che di “umano” ha ormai molto poco. Senza prediche, senza invettive, lungo la china delle evidenze.

Internazionale, numero 849, 4 giugno 2010

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