Emmanuel Carrère, Limonov

Adelphi, 356 pagine, 19 euro

Con Vite che non sono la mia e Limonov, Carrère si è affermato tra i grandi scrittori di questi anni, ha trovato il suo stile e la sua misura con romanzi che, come si conviene a un’epoca di trapassi e dismisure globali, sono, più che romanzi, ibridi necessari.

Testimone e comprimario, lo scrittore si assume compiti più vasti di quelli dei letterati, anche dei migliori, e fa inchiesta e storia trovando nella realtà vicende e persone ben più forti di quelle che la sola immaginazione può reperire, storie “inimmaginabili”, da investigare e spiegare, secondo una postmodernità assai più acuta di quella degli americani e lontanissima da certo velleitarismo italiota.

Ha trovato il modo di penetrare l’intimo di un’epoca folle come la nostra, dove l’umano si fa presto inumano ed è violentato dallo spettacolo, vissuto come finzione anche dalle vittime, non solo dai carnefici. Carrère ha seguito le incarnazioni di Limonov – che ha dieci anni alla morte di Stalin ed è poi barbone, teppista innamorato dei Sex Pistols, soldato, scrittore di successo, spregiudicato avventuriero tra Mosca e New York, l’Ucraina e Parigi, e oggi un leader destrorso, un “putiniano” anti-Putin – e per suo tramite narra la Russia del postcomunismo con la vitalità di un Jack London, l’ostinazione di un Truman Capote, e con il dono di una francese chiarezza.

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