Alberto Capitta, Alberi erranti e naufraghi
Il Maestrale, 200 pagine, 16 euro
Ci si chiede perché i tre precedenti romanzi di Capitta, il più originale dei nostri scrittori, non abbiano avuto il riscontro meritato, e ci si augura che l’ultimo, di struttura più solida ma di non minore libertà, possa infine farlo amare dai lettori più esigenti, amanti di poesia e di fantasia.
Non è realismo poetico il suo, ma qualcosa di più ampio e di più profondo, che spinge al paragone con il magistero femminile delle Morante, Ortese, Masino e Ramondino, o con i toscani di ieri da Palazzeschi a Lisi, tra gusto antico del romanzo-fiaba (con echi di Stevenson e Leskov) e l’esigenza di dire il più e l’oltre dell’esperienza attuale del mondo.
In una visione che non esclude animali e piante, e che, d’invenzione in invenzione, torna a un umano intriso di natura – mai bamboleggiata e mai dimenticando la sua durezza – e alle prese con le costruzioni nefaste e mortifere delle società e di un’umana miseria “antropocentrica”.
Nella Sardegna di Capitta, personaggi giovani si cercano e crescono in lotta con il male adulto ma incontrando anche adulti che non hanno tradito l’adolescenza. Dentro l’incantato, tra alberi che migrano e repubbliche di piccoli orfani, i puri tendono alla pienezza affettiva e all’accordo col creato. Ecco un romanzo diverso e prezioso, mai lezioso, che i lettori “continentali” devono scoprire.
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