Cristina Lio, Chi resta deve capire
E/o, 186 pagine, 16 euro
Non sono pochi i romanzi, le storie di vita, le inchieste che in questi anni ci hanno narrato storie di disabili e di emarginati, anche dall’interno di un’esperienza diretta, di una vicinanza reale. È diventato presto un “genere” di cui è legittimo diffidare, per i tanti che vi ricorrono per astuzia di mercato e non per convinzione o per vicinanza e dolore.
Il romanzo dell’esordiente Cristina Lio è tutt’altro, perché l’esperienza dell’autrice – cresciuta in una comunità di accoglienza calabrese dove sono passati molti tipi umani e si sono incontrati molti tipi di diversità o disagio – è autentica e forte, a volte drammatica, ed è una sorta di “piccole donne crescono” la cui freschezza nasce da quel modo davvero diverso di “crescere”.
La prima riga: “Ieri ho compiuto undici anni ed è iniziata l’estate”; l’ultima: “Mio padre mi ha detto: ‘Attenta a dove metti i piedi’”. Perno di questa crescita, il ruolo da saggio confidente del disabile Alfredo, destinato a morte precoce, e quello da sventata della ragazza Alice, una tossica vitalissima che rivendica la sua autonomia. Intorno, un coro di personaggi “normali” e “diversi” che possono apparire strani solo a chi non si confronta col “sociale” che ci attornia. Difficile prevedere il futuro di scrittrice di Lio, ma la simpatia e commozione che qui ci comunica sono dovute alla sua lievità e alla sua allegria, nonostante tutto.
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