Roberto Bolaño, I detective selvaggi
Adelphi, 688 pagine, 25 euro
Appassionante, provocatorio e caotico, ritorna I detective selvaggi di Roberto Bolaño (prima edizione spagnola 1998, ora ritradotto magistralmente da Ilide Carmignani) che con 2666, quasi un suo seguito, forma una delle imprese letterarie più ardite e convincenti della nuova letteratura mondiale, un modello difficile da imitare anche se nato a sua volta da modelli lontani: le scombinate avventure o disavventure di giovani intellettuali on the road hanno infatti una storia che risale al Satyricon, va avanti con gli inglesi del settecento, incrocia Gobineau (Le Pleiadi, che nessuno purtroppo legge più), e poco prima di Bolaño ci ha dato Il gioco del mondo di Cortázar alias* Rayuela*, e Fratelli d’Italia di Arbasino.
Gioventù come curiosità irrequietezza disponibilità, crudeltà presunzione egocentrismo e, in quanto intellettuale, smaniosa di citazioni e di amori e odi culturali senza mezzi termini, famelici o ringhiosi.
Diviso in tre parti, di cui la seconda offre una esplosiva galleria di figure ed esperienze che vanno verso il visionario, mette in scena lo stesso autore (nel romanzo Arturo Belano) e il gran teatro del mondo latinoamericano, tra utopie e disastri di mezzo secolo, spingendo la sua caccia oltre il deserto di Sonora, alla ricerca di una sconosciuta profeta del “realismo viscerale”, su fino a una città che è oggi frontiera dell’inferno.
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