Andrej Platonov, Cevengur
Einaudi, 502 pagine, 26 euro

I lettori che vogliono mordere qualcosa di consistente senza farsi sviare da copie di copie, si accorgono infine che è esistito in Russia (anzi in Unione Sovietica) uno scrittore tra i più grandi ma tra i più trascurati, Andrej Platonov (1899-1951), che ha scritto capolavori inclassificabili come Mosca felice o Dzan, romanzi e racconti rivoluzionari e dunque invisi alla rivoluzione ufficiale e con la r maiuscola.

Nel crogiuolo di anni di risveglio e di sangue, rivolta e controrivolta, ideali grandiosi e utopie realizzabili presto avvilite dall’ottusità dei nuovi poteri, escludenti e violenti, Platonov ha narrato, con una libertà insofferente di briglie ideologiche che non fossero quelle della sua personale visione della rivoluzione, la ricerca della “terra felice”. E l’ha trovata a Cevengur, un villaggio perduto nella steppa dove la rivoluzione è nata germinandosi da sé, su un terreno non operaio (e gli storici lo confermano: la rivoluzione russa è stata anzitutto contadina, di rivolta alla guerra e all’oppressione zariste in un paese immenso dove gli operai di fabbrica erano pochissimi, e ha avuto istanze comunitarie e non centraliste).

A Cevengur il comunismo è fiorito da sé, dalla miseria dei contadini e dai sogni di giustizia di alfieri sconosciuti. In questo caotico e geniale romanzo ci si confronta davvero con il turbine della storia, che soli sanno interpretare i poeti nati dalle viscere degli ultimi, dei più.

Questo articolo è stato pubblicato il 17 aprile 2015 a pagina 82 di Internazionale, con il titolo “Dalle viscere degli ultimi”. Compra questo numero | Abbonati

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