Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio è uno strano film, in linea con tutti i suoi, ma apparentemente più libero nella struttura del racconto, in bilico tra un passato molto lontano (un seicento che la fotografia di Daniele Ciprì fa caravaggesco) e un presente in cui gli echi del passato si disperdono nella confusione che ci appartiene (la musica di Carlo Crivelli, facile e invadente, unifica i due tempi della storia).

Ieri, una giovane donna è vittima di un sistema clericale assoluto, una “monaca di Monza” nelle spire dell’Inquisizione e di due fratelli suoi mortiferi amanti, uno suicida e uno vivo; oggi, nel 2015, la prigione-convento del suo martirio è abitata da un vecchio notabile al centro di altri vecchi notabili che vedono in pericolo il loro potere non troppo occulto per l’arrivo di un ciarlatano scambiato all’inizio per un vero ispettore regionale. Alla cupezza del passato si sostituisce la rozzezza del presente, alla compattezza stilistica del primo si contrappone la vivacità e l’isteria del secondo.

Il limite di Bellocchio è da tanti anni quello di fidarsi troppo della propria intelligenza

Ieri la rigidità della legge, disposta a passar sopra a tutto per aiutare la propria parte; oggi l’assenza apparente della legge, con la corruzione che è il modo di sempre per liberarsi degli inciampi. Però il film ha due finali positivi, entrambi di un ottimismo eccessivo e generico: la donna vince su tutto ed esce splendidamente viva e nuda dalla cella della storia travolgendo l’amante persecutore, nel frattempo diventato cardinale, e la polizia è alla porte di Bobbio per sgominare, forse, i corrotti (ma chi non lo è, nella Bobbio-Italia di oggi?). L’italico vecchiume deve morire, ed è un vecchio quasi solo al maschile.

Sangue del mio sangue

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Il limite di Bellocchio è da tanti anni quello di fidarsi troppo della propria intelligenza: scrive per lo più da solo, e filosofeggia con facilità su inconscio e società, più vicino a certi contorti drammaturghi di ieri che allo Jung cui, infine, sembra oggi rifarsi volendo scavare oltre e dire di più del racconto e della cronaca, volendo esplorare significati profondi che restano tuttavia terra terra. I dialoghi e la confusione della seconda parte sono ricchi di imbarazzanti banalità vagamente qualunquiste, anche se non si può dubitare della loro sincerità.

Domina la pesantezza, è assente la grazia. Bellocchio non vola mai e scava con un metodo tutto suo, più a caso d’altre volte, offrendoci una sorta di strana predica piena di bei momenti (è un regista, ha il dono) e di confusione. È vero, è un autore, secondo la vecchia distinzione di ieri, in un mondo di registi-cavallette che fingono di esserlo, ma è un autore secondario e ossessivo che lascia il tempo che trova e rimane prigioniero, come avrebbero detto i sociologi stranieri che studiarono l’Italia del dopoguerra, di una sorta di tipico e nostro “familismo amorale”, nell’ispirazione come nella gestione dei suoi film. Cinquant’anni, fa nei Pugni in tasca, uccideva la madre, ma era tutta una finta.

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