Antonio Pascale, Le aggravanti sentimentali
Einaudi, 182 pagine, 18,50 euro
Antonio Pascale è un autore che avrebbe potuto crescere altrimenti, dopo gli esordi intriganti di La città distratta e La manutenzione degli affetti. Porta all’estremo la voga dell’autofiction, senza però darsi alibi (come altri fanno e lui stesso ha fatto), mescolandola a temi e ambienti di rilievo sociale, attuale. Parla di sé e del suo piccolo mondo familiare e amicale, della Roma in cui vive e della Caserta da cui viene.
Gli amici sono tutti, come lui, intellettuali, artisti o aspiranti tali, che parlano, parlano e parlano. Per lo più cazzeggiando, ma a tratti un po’ meno, per gli inciampi della vita : coppie, carriere, frustrazioni, incidenti di percorso. Filosofando a ruota libera da liceali frastornati o da interlocutori di Radio3. Comuni e noiosi nella loro superficialità citazionista, nelle loro egoistiche meschinità, nel loro quadro d’esperienze. Forse un libro disperato senza la coscienza di esserlo? O la semplice presa d’atto che questa è per loro la vita e un’altra non gli interessa?
Se Pascale andasse fino in fondo, potrebbe darci dei Bouvard e Pécuchet del nostro tempo, campionari di umana (e angosciosa) stupidità. Ma si ferma troppo presto nell’esplorare la miseria di un’epoca e della sua classe dominante, in un contesto dove quasi la metà della popolazione vive ormai, in varia veste e in vario modo, di cultura.
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Questo articolo è stato pubblicato il 4 marzo 2016 a pagina 88 di Internazionale, con il titolo “Tra velleità e delusioni”. Compra questo numero| Abbonati
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