Almodóvar fatica a tener alto il suo prestigio, e i suoi film appaiono sempre più stanchi e persino noiosi nelle loro trame contorte, nei loro intrecci coattivi. Il perno è sempre lo stesso: “le leggi del desiderio” – e Deseo si chiama la sua casa di produzione – e gli intralci che si pongono sul loro cammino. Un tempo il desiderio poteva vincere, in Julieta soccombe. Fino alla sua negazione, nella figlia di Julieta, Antía, che sceglie l’austerità protestante in seguito alla morte del padre che imputa alle inadempienze della madre e di un’amica, che troppo accettano il desiderio. Ma alla fine anche sulla strada scelta da Antía arriva la punizione perché la vita si ripete e si ritrova anche lei nella condizione della madre che ha abbandonato.

Il conflitto figlia-madre è uno dei più classici cardini del genere. Ci si aggiungono il destino, la morte, il thanatos che si contrappone all’eros, cose che non hanno leggi (il caso, gli dèi, Dio o quant’altro). Al contrario del desiderio che ne ha di ripetitive e condizionanti, ma alla lunga poco o per poco liberanti. Ed è solo tra i non borghesi, nel padre di Julieta insegnante in pensione e nella sua giovane coadiuvante, che il desiderio, saggiamente controllato, non porta al fallimento e alla cupezza.

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Il “genere” a cui tutto il cinema di Almodóvar si rifà è il melodramma, con gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione del desiderio, di una suprema aspirazione, di un fondamentale bisogno. Questo tema era svolto nell’Almodóvar degli anni ottanta dello scorso secolo in modi felicemente debordanti e vitali, e si risolveva in finali ottimistici, dove il desiderio poteva anche vincere su tutto o su quasi tutto. Oggi il tono è diverso, e a parte l’affanno di una trama complicata (non più nata dall’ispirazione del regista ma da tre racconti di Alice Munro, scrittrice non molto affermativa e ottimista), è anche l’ostinazione glamour, e frigida, della regia e dell’ambientazione, leccatissima e “armaniana”, a dimostrare che i tempi sono cambiati e che Almodóvar non ce la fa a starci dietro.

Il film sconta una sorta di senilità pesante del regista che dimostra anche l’esilità del suo talento.

All’inizio della sua ascesa, negli anni ottanta del novecento, Almodóvar aveva espresso una novità rilevante. La fine della dittatura franchista, e del suo cattolico perbenismo censorio, portò alla luce – come accadde in modi non dissimili nella Russia post-sovietica – tutto il represso, il “basso”, in un’esplosione incontrollabile di vitalità e di volgarità. In questo senso Almodóvar è anche l’antesignano della volgarità contemporanea, più triste di quella di allora perché consolidata come costante e sempre più comune, dilagata, conformista, noiosa, basata sulla tristezza di esibizionismi sempre più miserabili. A zero rivolta e a zero liberazione. Ma il film di Almodóvar non sconta solo questo cambio d’epoca (anche se la cultura di cui era portatore ha vinto), sconta l’appannarsi della sua invenzione, una sorta di senilità pesante che dimostra anche l’esilità del suo talento.

Nel melodramma bisogna crederci, se si vuole che il pubblico ci creda. Raffaello Matarazzo (Catene, Tormento, I figli di nessuno) disse una volta ai suoi attori che solo se riuscivano a farlo piangere nelle scene madri, allora si poteva esser certi che tutti gli italiani avrebbero pianto. E Douglas Sirk, l’insuperato maestro del genere (Come le foglie al vento, Lo specchio della vita), sapeva bene, al contrario dello spagnolo, quanto contassero le costrizioni sociali, anche quelle legate alle presunte liberazioni, nell’impedire la realizzazione dei desideri, e quanto contasse anche negativamente il farsi schiavi delle passioni. Un suo seguace e imitatore recente è Todd Haynes, e sarebbe interessante un confronto tra questi registi, ma non dovrebbe però venire solo dalla critica cinematografica.

Insomma, anche Almodóvar è invecchiato. Si rende conto di quanto di illusorio ci fosse nelle sue proposte di liberazione, delle quali ha contribuito a far vincere la parte esteriore e più rozza, diventata comune. E si direbbe che oggi pianga più che ridere, scoprendo che i sentimenti sono più importanti dei corpi, che la liberazione di uno provoca il dolore dell’altro, e che pure il caso (gli dèi che studia Julieta) ci mette lo zampino. E racconta oggi tutto questo con una malinconica e faticosa superficialità, molto meno provocatoria e coinvolgente della spavalda e contagiosa allegria di ieri.

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