Al festival di Berlino è stato premiato un buon film italiano d’ambiente napoletano, La paranza dei bambini, che non mi è sembrato convincente. Del giovane regista Claudio Giovannesi molti ricorderanno il precedente lavoro, Fiore, che dimostrava non solo un ottimo mestiere, ma anche una grande sensibilità nei confronti di un tema che continua evidentemente a stargli a cuore, quello dell’emarginazione giovanile; solo che stavolta ha dovuto lavorare su un’ispirazione non sua, un romanzo di Roberto Saviano non entusiasmante per i troppi “effetti speciali” da sovraccarico splatter. Un Saviano che ce la metteva tutta per sbalordire buttando in un cantone le sue qualità migliori.

Romano, Giovannesi ha affrontato il mondo della criminalità giovanile napoletana, quella poco più che infantile, con l’aiuto di Maurizio Braucci, scrittore sceneggiatore attivista di grande rigore, ma alla fine a vincere è stato un generico buonismo, pur dentro un’alta professionalità bensì mutuata, coscientemente o meno, da modelli hollywoodiani classici (la lezione di un genere come il film di gangster nella sua ultima grande stagione, gli anni sessanta e settanta dello scorso secolo), mutuati però a loro volta dalle loro applicazioni televisive.

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Nonostante la sincerità dell’assunto, il film risulta fatto assai bene e però scontato e molto, infine, “recitato”, esteriore perfino nella scelta dei ragazzi protagonisti (quello che guida la storia sembra destinato a una stinta professionalità appunto televisiva).

Vediamo quel che ci aspettiamo di vedere, con ripetizioni che il cinema hollywoodiano classico avrebbe evitato. Ottimo mestiere, poca spontaneità, poco scavo, e il rischio di stereotipi ormai scontati, per l’appunto da serial tv. Una pietas certo sincera, convinta ma prevista, e che non scava, non mette in crisi, non costringe a pensare e non sollecita reazioni. Nel regno dello spettacolo, Giovannesi può fare di più e di meglio, di più profondo e di sincero, di più necessario; non dovrebbe accontentarsi del successo nei festival o dell’effimera superficialità mediatica.

Ferrente ha realizzato il film giusto sui ragazzini napoletani marginali per forza

Altro è il discorso per il documentario di Agostino Ferrente, Selfie, volutamente e lodevolmente marginale pur di risultare e vero e nuovo. Ferrente ha già alle sue spalle un lungo e proficuo lavoro di documentarista di cui va ricordato almeno Le cose belle, un’altra appassionata incursione napoletana in cui si verificava cosa era accaduto a dei giovanissimi proletari di cui tempo prima, negli anni del trionfo berlusconiano, Ferrente aveva mostrato le spavalde fiducie nei “domani che cantano” e che, a pochissimi anni di distanza, ritrovava delusi e falliti, dentro una normalità avvilente, priva di luce e priva di speranza.

Senza il sostegno produttivo ed economico e pubblicitario che ha avuto La paranza, Ferrente ha realizzato il film giusto sui ragazzini napoletani marginali per forza, partendo da un fatto di cronaca di poco tempo fa, la morte al rione Traiano (una fitta periferia di case popolari a nord della città) di un ragazzino, Davide Bifolco, ucciso da un poliziotto, un intollerabile e ingiustificato atto di violenza.

Un’inchiesta sociale vera
Ferrente ha consegnato a due adolescenti amici di Davide due telefoni con i quali i due hanno filmato se stessi e i personaggi del quartiere, soprattutto i propri coetanei (non bellini e deodorati come il protagonista della Paranza), in modo da mostrare anche il quartiere, ripreso peraltro, a scansione dell’azione, da closed circuit television camera, le minimacchine da presa fisse con cui si controllano case strade piazze quartieri…

Ne risulta un’inchiesta, opportunamente montata, che ci scopre un ambiente, una cultura, delle storie fatte di scarsità, di paure ma anche di sogni, di capacità di resistenza. Selfie è un’inchiesta sociale vera, non di quelle che vanno oggi di moda, sui giornali e con i libri e con i film – il cosiddetto reportage narrativo, troppo spesso prevedibile e talvolta insopportabile. Una “inchiesta partecipata” vera o, come si chiamava un tempo, una con-ricerca che vede uniti nella stessa impresa e secondo idealità comuni chi investiga e chi è investigato.

Selfie. (Istituto Luce)

È un film straordinario Selfie non solo per l’originalità e infine semplicità del modo in cui è stato girato, del suo uso di tecnologie nuove e a portata di mano (delle vere caméra-stylo come quelle teorizzate e praticate al tempo delle nouvelles vagues), ma per la sensibilità del regista nei confronti della sua materia.

Ferrente trasforma l’inchiesta in una sorta di romanzo in diretta sulla storia di un’amicizia e racconta, con i suoi protagonisti, un ambiente, un contesto sociale e bensì anche storico.

E dimostra quanto costi crescere in un ambiente come quel rione e quella città, in questo nostro sciagurato paese con la sua cinica e stupida classe dirigente, i suoi insipidi e conformisti intellettuali, vecchi e giovani e di mezza età, con il suo popolo vieppiù corrotto ma insieme corruttore. Non c’è dubbio, se una novità c’è, nel grigio cinema di oggi, essa sta, in Italia come dovunque, nella marginalità e non nella centralità, non di certo nel mainstream delle produzioni addomesticate.

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