Voi tricoteuses che sferruzzate davanti al patibolo e vi godete l’occasionale spettacolo di una pubblica esecuzione non immaginate quanto sia monotona la vita quotidiana di una corte marziale come quella di Pagina 69. Per lo più sfilano a capo chino sotto i nostri occhi romanzi e romanzetti così ordinari, così rassegnati a una medietà poco virtuosa, da far venir meno la voglia di sprecare munizioni. Le mode letterarie, in questo, non aiutano. In Italia si avvicendano come punizioni divine: abbiamo avuto la piaga dei carveriani, la piaga dei cannibali, la piaga dei postmoderni, e via espiando. Ma il flagello che più ci ha annichilito è un altro. Siamo stati per secoli un paese di scrittori d’effetto, di bello stile, di meraviglie mariniste, di fuochi d’artificio, ansiosi di misurarsi sul passo breve della pagina, salvo dimenticarsi della tenuta della narrazione. L’italiano, diceva
Antonio Gramsci, quando scrive sente il bisogno di montare in trampoli. Il romanzo è da sempre un miraggio, e una promessa non mantenuta di modernità. Da qualche tempo, tuttavia, i giocolieri della prosa d’arte non incantano più, sono maldestri o impigriti. A imperversare nelle nostre lettere, specie tra gli scrittori più giovani, è uno stile anonimo che potremmo caratterizzare così: frasi smozzicate al presente indicativo o all’imperfetto, sempre in odore di discorso indiretto libero; un lessico medio, colloquiale, appiattito, senza guizzi che non siano l’ammiccamento gergale o un timido lirismo. Non c’è altro. Che sia tutta farina del sacco degli scrittori o ci sia anche una robusta mano di vernice degli editor, il risultato non cambia: uno stile scorrevole, masticabile e perfettamente insapore. Come un chewing-gum.
La giuria della corte marziale è imbarazzata e contrariata. Sente montare l’irritazione per un modo di scrivere di cui avverte un sentore di sotterranea abiezione, vorrebbe affidarsi ciecamente al proprio fiuto ma raramente trova la smoking gun, la prova regina, l’arma di distruzione di massa letteraria che giustifichi un brusco “Puntate, fuoco!”. Capita però che un’epifania di puro orrore squarci la superficie di garbata insignificanza.
Fino a ieri, confesso, non sapevo nulla di Ilaria Bernardini, e non ho ragione di accanirmi contro di lei: anzi, quasi me ne rammarico, ma la guerra è guerra, e in fin dei conti comando un plotone. Apprendo che ha 35 anni, è laureata in filosofia, scrive per il cinema, la tv e i giornali, ha già pubblicato per editori come Baldini&Castoldi Dalai, Isbn, Bompiani e Feltrinelli. Il suo ultimo romanzo, Domenica, è edito appunto da Feltrinelli, e questa è la sua pagina 69:
Come vedete, c’è tutto: le frasi telegrafiche all’indicativo o all’imperfetto, sempre in odore di discorso indiretto libero, qualche ammiccamento gergale (“Non so se ce la faccio, amico”) e qualche timido lirismo (l’attesa è “calda e pesa sulle spalle”). I soldati del mio plotone sono impazienti e frustrati, giocano a perditempo con i loro fucili, ma ancora non ricevono l’ordine. Poi, d’improvviso, ecco l’antiepifania, la rivelazione orripilante, l’eruzione del male, il capovolgimento satanico delle illuminazioni profane di James Joyce:
“Si immagina la pipì bloccata uscire in un solo istante dai pori, rendere bagnati tutti i peli. Il cane come un idrante peloso che non lo farà aspettare, e così staranno tutti meglio”.
Meditate bene su questo passo. Quando dieci anni fa, a San Gimignano, visitai uno dei tanti Musei della tortura disseminati per l’Italia, a impressionarmi non fu tanto il pensiero dell’effetto di quei macchinari sui corpi dei condannati, quanto lo scorcio che offrivano della mente dei loro inventori. Per escogitare crudeltà così raffinate, ragionai, non basta un’esplosione passeggera di cattiveria, bisogna indulgere al male, macerarsi nel male, prestare alla causa del male tempo, cure e una smisurata dedizione. Ecco, mutatis mutandis provate a calarvi nella mente di una giovane scrittrice in cui si affaccia, per avventura, l’immagine di un cane trasformato in un idrante peloso di pipì che improvvisamente sprizza da tutti i pori. La sventurata non coglie immediatamente l’orrore di questa apparizione, ma anzi vi indulge; non la ricaccia in fretta e furia nell’inferno da cui era venuta, ma anzi ci si sofferma, la soppesa, la considera, e a un certo punto si risolve: “Sai che ti dico? Questa è proprio forte, la metto nel mio romanzo”. L’editor, a sua volta, manca alla sua sacra funzione di guardiano della soglia, non trattiene in catene la manifestazione del male letterario. E l’idrante peloso di pipì supera tutti i controlli, varca tutte le dogane, e finisce al centro di una pagina di un romanzo pubblicato da Feltrinelli, uno dei più grandi e prestigiosi editori italiani. L’effetto, sul lettore, non è così diverso da quello toccato in sorte al torturato che l’inquisitore sottoponeva al supplizio della ruota o alla forcella dell’eretico.
E così ho pensato che in fin dei conti dobbiamo benedire lo stile medio, anonimo e pavido. Perché se certi giovani narratori osassero, se dessero sfogo alla loro vena immaginifica, se inseguissero la bella pagina, se tentassero le acrobazie dello stile, se insomma liberassero il loro demone interiore il risultato potrebbe essere questo: un cane trasformato in un idrante peloso di pipì.
Ci sono mostri che vanno tenuti sotto chiave, “così staranno tutti meglio”.
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