C’è una linea sottile che divide il processo sommario dal linciaggio bello e buono, e guai a noi se ci venisse l’uzzolo di oltrepassarla: la legittimità della nostra funzione ne sarebbe perduta, una Corte marziale non è un’orda barbarica. E però. E però a volte ne va del nostro equilibrio mentale, e converrete che è un prezzo piuttosto alto da mettere in conto. Emil Cioran, guardando con rimpianto alle epoche in cui era lecito sbranare i propri nemici senza troppe remore umanitarie, scriveva che “niente rende più infelici che il dovere di resistere alla propria essenza primitiva, al richiamo delle proprie origini. Ne derivano quei tormenti dell’uomo civile ridotto al sorriso, aggiogato alla cortesia e alla duplicità, incapace di annientare l’avversario se non col discorso, votato alla calunnia e come disperato di dover uccidere senza agire, con la sola virtù della parola, questo pugnale invisibile”.
Facciamola breve, e confessiamo: la nostra Corte, quando ha letto
sulla Stampa questo “Appello agli uomini”, anticipazione del nuovo libro di Luciana Littizzetto, Madama Sbatterflay, ha coltivato i più sconvenienti desideri di sangue. Per la cronaca, la frase che ha ridestato l’australopiteco urlante che è in noi è questa: “Se per terra, dietro di voi, vedete venti merde a forma di piede, pensate che forse ci sarebbe piaciuto che vi foste levati le scarpe dopo essere passati avanti e indietro nella fanga”.
In un paio di righe, un inventario di abomini di varia natura - linguistici, estetici, ideologici, di stile, di gusto, di arte umoristica. E però. E però, bisogna svolgere tutto secondo le formalità del codice, per quanto il sangue ribolla e prema sulle tempie. Ce l’ha fatta il salace Antonio D’Orrico, con un po’ di esercizi yogici possiamo farcela anche noi. E allora, Pagina 69 di Madama Sbatterflay.
Ogni Corte marziale, va da sé, ha i suoi pregiudizi. La nostra, pur sapendo poco o nulla di storia dell’umorismo italiano, è molto sensibile alla sua geografia, o almeno all’idea (anch’essa tutta pregiudiziosa) che se ne è fatta a lume d’idiosincrasia. “Napoli: da qui comincio a capire le persone. Più a nord, mi riescono astruse e artificiali”. La Corte sottoscrive in pieno questa annotazione dal Diario romano di Vitaliano Brancati.
Ebbene, c’è stato un momento, sul principio degli anni ottanta, in cui parevano contendersi la scena due tradizioni, due visioni della vita, due linguaggi e soprattutto due ritmi. C’era un umorismo flemmatico, filosofico, conviviale, ironico più che comico, che veniva dalla Magna Grecia e si era impiantato saldamente nella coscienza (e nella tv) nazionale grazie alle roccaforti di Quelli della notte e Indietro tutta, le due trasmissioni di Renzo Arbore.
Dal nord calavano invece i Longobardi del Drive in *di Antonio Ricci, con i loro ritmi frenetici, la loro ilarità un po’ isterica, le loro risate registrate e un’attenzione mimetica (ancorché sociologicamente curiosa, e in questo ammirevole) per certi gerghi raccapriccianti dell’epoca, dai paninari ai bocconiani. Da quell’originario *showdown, la geografia dell’umorismo italiano è cambiata: lasciando da canto la questione dei toscani (l’ultima parola a riguardo l’ha già detta Stanis LaRochelle), si può dire che i Padani hanno vinto, annettendosi anche una parte dell’umorismo dell’Italia centrale (il tipo parodistico del “coatto” romano, per dirne una, è ormai una macchietta da Drive in sotto mentite spoglie). Una colonizzazione che si è accompagnata alla funesta diffusione, in tutta la penisola, del costume celtico dell’aperitivo. Gli umoristi del “pensiero meridiano”, ahinoi, si sono pressoché estinti.
Luciana Littizzetto è il prodotto più basso di questo lungo processo, un punto di capitolazione su cui si scaricano il peggio dell’antonioriccismo nella variante Gabibbo, il peggio del beppegrillismo e della tradizione ligure, il peggio del cabaret televisivo alla Zelig e una nota di virtuosismo verbale da coattismo neoverdoniano, il tutto tenuto insieme da una visione del mondo da Bagaglino ripulito e democratico. Dimentichiamoci per un attimo, con sovrumani sforzi di autocontrollo, della voce della Littizzetto e della cadenza della sua parlata (il nostro è un processo inquisitorio e rigorosamente cartolare, dove l’oralità non trova spazio) e dedichiamoci a questa sua pagina. Distinguendo, alla buona, tra il cosa e il come, poiché “la bontade è ne la sentenza, e la bellezza è ne l’ornamento de le parole”.
L’ornamento de le parole, qui, è fatto per lo più di similitudini iperboliche e immaginose nello stile del “barocco coatto”: i vip si rifidanzano nel “tempo di evacuazione di una rondine”, alla “velocità del bosone di Ginevra”, o ancora nel “tempo che ci metteva il Trota per dire una boiata”; Belén che ti si offre è “come vedere le cascate del Niagara andare al contrario”, e così via. Poca cosa, ne converrete: modi artificiosi per travestire banalità (il Trota è stupido, le bellone della tv non te la daranno mai, ahahah).
Poi c’è tutto un metaforeggiare facilotto intorno agli organi sessuali: “poco bijoux” (con una x di troppo), “poco asparago”, un “cucchiaino da caffè”, sul versante fallico; la “cruna”, sull’altro versante (e almeno per una pagina ci è risparmiata la “Jolanda”, che ci fa piangere calde lacrime di nostalgia per l’Ubalda dei decamerotici). E c’è infine un continuo rifarsi ai tic verbali e alle parlate in voga (“per questi qua rifidanzarsi è un attimo”), rispetto alle quali la Littizzetto ha la sola funzione di spugna, che assorbe e risputa sciattamente, e non già quella di cozza, che quanto meno depura le acque torbide.
Fin qui l’ornamento. Ma che cosa adorna, questo ornamento? Dov’è la “bontade” della sentenza? Tutto questo ammiccare, questo dar gomitatine d’intesa, su cosa ci chiede di convenire? Non vogliamo farne una questione politica o ideologica, beninteso, siamo solo ipersensibili alla banalità e alla noia. E sotto la bigiotteria grossolana del linguaggio-Littizzetto si cela la banalissima, noiosissima Weltanschauung-Littizzetto (lei direbbe Walterschauung, e sai che ridere). Una cosa a metà tra il Bagaglino, la commedia sexy degli anni settanta – che rimane a confronto un vertice di eleganza inarrivabile –, il tormentone Marte/Venere e il lamento ironico della casalinga esasperata.
Una visione ossessionata non tanto dal sesso, che è pur sempre una delle fonti della grande comicità, quanto proprio dagli organi genitali (il meglio che la Littizzetto sa inventarsi su Corona è “quel suo pendere in avanti”) e da relazioni uomo-donna ferme alla terza media. I maschi sono erotomani che sbavano indistintamente se una bella donna “gliela tira dietro”, “gliela porge”, “sventola il lepidottero” o “la dona”. Le donne, le altre, quelle escluse dalla partita scimmione-vuole-oca, sono pettegole che guardano alla vita dei belli o dei vip con un misto di ironia, di orgoglio da bruttine-ma-simpatiche e di blanda condiscendenza (modello, peraltro, che vanta molte sciagurose carriere giornalistiche al femminile). E va bene che non vogliamo farne una questione politica, ma il lepidottero di Belén fa meno danni all’immagine della donna delle battute della Littizzetto sul lepidottero di Belén.
Per non dire dell’immagine dei maschi, amabili bestioni che hanno il solo problema del pisellino o del pisellone, che sono ipocondriaci, che si fanno male la doccia, che non puliscono i bicchieri o che lasciano “merde a forma di piede” (orrore) per essere passati “avanti e indietro nella fanga” (doppio orrore). Ma il solo citare queste parole ci riporta il sangue alla testa, e prima di commettere qualche imprudenza convochiamo in fretta il plotone e facciamola finita, per chiudere questo libro e non doverlo riaprire mai più.
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