Caro bibliopatologo,
mi vergogno un po’ a scriverti questa cosa, ma ho bisogno del tuo aiuto. Sono una lettrice accanita, ma non riesco a leggere niente che sia a tema shoah: non ho mai letto per intero il Diario di Anna Frank, non ho mai letto Se questo è un uomo o La tregua di Primo Levi. Ogni volta che penso ai metri percorsi dai prigionieri nei campi di concentramento, al destino a cui sono andati incontro e a tutta la crudeltà di quel periodo, ho un attacco di pianto. La verità è che non ce la faccio, esattamente come Nanni Moretti in Caos calmo, quando diceva che non aveva il coraggio di guardare le scarpe e gli occhiali conservati ad Auschwitz. Ecco, a me manca il coraggio di affrontare tutto quel dolore. Non ci riesco. Mi sento male. Che posso fare?
–Eleonora
Cara Eleonora,
rispondere alla tua domanda non è facile, e infatti son qui che scrivo e cancello, scrivo e cancello. Come la giro, avverto sempre una nota stonata: o mi sembra di suonare fastidiosamente pedagogico, o inutilmente vibrante, o sospettamente tortuoso. Forse in questo c’è già in nuce una parte della tua risposta: parlando di shoah abbiamo tutti paura di sbagliare, di usare una parola fuori posto, futile, incongrua; sappiamo che ci sono modi appropriati e inappropriati di parlarne, così come di raccontarne la storia e di reagire emotivamente a questi racconti.
Per tante ragioni che non sto qui a ripercorrere, ci siamo abituati a pensare che la via maestra per accostarci alla shoah sia quella dell’immedesimazione: provare per quel poco che è possibile a metterci nei panni dei deportati, sforzarci di sperimentare in modo vicario le loro sofferenze. Le lacrime, quando arrivano, sono il suggello che garantisce l’autenticità di questo itinerario dell’immaginazione. I film, i romanzi, le commemorazioni giornalistiche e perfino alcuni musei, come quello di Washington, sono spesso costruiti con questo criterio implicito. Che genera effetti collaterali piuttosto rivelatori: dai ragazzini che si sentono quasi in colpa se visitando i lager non riescono a piangere (lo racconta Bernhard Schlink nel romanzo A voce alta) ai casi psicoletterari di quelli che si calano così a fondo nella condizione del sopravvissuto da forgiare falsi memoriali.
Ma la via melodrammatica – e in questo aggettivo, chiariamoci, non c’è nessuna nota di derisione – non è l’unica. Ci sono altri generi, altri stili, altri registri. Ti elenco alla rinfusa un po’ di libri che ti faranno senz’altro pensare e immaginare, ma senza per forza farti piangere.
Prova a leggere, per esempio, Badenheim 1939 di Aharon Appelfeld o W o il ricordo d’infanzia di Georges Perec, dove la shoah è onnipresente ma pressoché invisibile, nascosta com’è dallo schermo del racconto fantastico-allegorico. Oppure Il nazista e il barbiere di Edgar Hilsenrath, La danse de Gengis Cohn di Romain Gary, il dramma I cannibali di George Tabori, tutti libri che potrebbero perfino suscitarti qualche risolino amaro. Se sei disposta a commuoverti e spaventarti – ma come ci si commuove e ci si spaventa per le favole – L’uccello dipinto di Jerzy Kosinski e Il re degli ontani di Michel Tournier potrebbero fare al caso tuo. E per finire, due romanzi recenti che gettano uno sguardo umoristico non già sulla shoah, ma sugli stereotipi (anche melodrammatici) con cui la commemoriamo: Il mio Olocausto di Tova Reich e Olocaustico di Alberto Caviglia.
Se anche con questi ultimi due libri hai un attacco di pianto, beh, sei un caso incurabile.
Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it.
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