“Chiunque dovesse tradire il paese ne pagherà le conseguenze, ve lo assicuro”, ha dichiarato il presidente del Ruanda Paul Kagame durante un comizio a gennaio, poco dopo che l’ex capo dei servizi segreti Patrick Karegeya era stato trovato in una camera d’albergo in Sudafrica, morto per strangolamento. Karegeya aveva lasciato il governo ed era diventato uno dei principali oppositori del regime, cosa che agli occhi del presidente Kagame costituiva di sicuro un tradimento del paese.
Non è raro che i dittatori tendano a identificare i loro interessi con quelli del paese, e nemmeno che facciano uccidere delle persone. Ciò che è davvero strano è un dittatore che ha fatto uccidere parecchie persone, ma viene lodato dagli altri paesi per la sua eccellente amministrazione e ricoperto di aiuti internazionali. In questa fortunata categoria rientra il presidente Paul Kagame.
Meno della metà dei 12 milioni di ruandesi hanno vissuto in prima persona il terribile genocidio di vent’anni fa, ma il paese nel suo insieme ne è ancora ossessionato. Kagame ha governato il Ruanda per tutto questo tempo, ed è convinto di essere l’unico in grado di impedire che succeda di nuovo. Da qui alla convinzione che il suo dovere sia restare al potere con ogni mezzo necessario, compreso l’omicidio, il passo è breve.
Ufficialmente tutti gli omicidi vengono negati, ma nessuno ci crede. La scorsa settimana un tribunale sudafricano ha condannato quattro sicari piuttosto incompetenti, uno ruandese e tre tanzaniani, per il tentato omicidio dell’ex capo di stato maggiore dell’esercito ruandese, Faustin Kayumba Nyamwasa, avvenuto nel 2010 a Johannesbourg. Gli hanno sparato allo stomaco, ma è sopravvissuto dopo mesi di terapia intensiva e loro non l’hanno fatta franca.
Il giudice sudafricano Stanley Mkhair ha dichiarato in modo diplomatico che il complotto per uccidere Nyamwasa si stato ordito da “un certo gruppo di persone in Ruanda”. Le autorità sudafricane sanno anche quanto sono stati pagati gli attentatori: 80mila rand (circa 5.700 dollari). Ma non era il caso di fare il nome di Kagame.
Lo scorso mese di marzo, quando il ministro della giustizia sudafricano Jeff Radebe ha detto al Ruanda di smetterla dopo un altro tentativo di uccidere Nyamwasa, i due paesi hanno espulso i rispettivi ambasciatori. Un avvertimento all’anno è più che sufficiente, ma almeno qualche volta il Sudafrica rompe il silenzio. La maggior parte degli altri paesi africani guarda dall’altra parte quando spuntano gli squadroni di Kagame, gente come Tony Blair accetta passaggi sul suo jet privato e le agenzie di aiuti umanitari non fanno una piega.
Queste persone non sono degli sciocchi né delle canaglie (a parte Tony Blair, naturalmente). Ma allora perché stanno tutte concedendo carta bianca a Kagame? Perché segretamente nutrono il sospetto che Kagame abbia ragione: solo lui è in grado di prevenire un altro genocidio in Ruanda. E forse non hanno tutti i torti.
Durante il genocidio del 1994 si stima siano state uccise 800mila persone, circa il dieci per cento dell’intera popolazione. Non ci sono stime attendibili sul numero di vittime tutsi, che un tempo erano la casta dominante ma nel 1994 erano ormai una minoranza perseguitata. Un’ipotesi credibile è che più della metà di coloro che furono uccisi erano tutsi (il resto erano hutu “moderati”), e che almeno la metà della popolazione tutsi fu sterminata.
I sopravvissuti tutsi, e cosa ancora più importante, gli esiliati tutsi che combatterono nel Fronte patriottico del Ruanda di Kagame per poter tornare a casa, rappresentano oggi, a distanza di vent’anni, lo zoccolo duro della classe dirigente del paese, sebbene i tutsi siano ormai il dieci per cento circa dell’intera popolazione. Kagame ripete che “siamo banyarwanda” (tutti ruandesi), e che non esistono tribù distinte in Ruanda. Tecnicamente ha ragione. Ma in termini pratici ha torto, e lo sa bene.
I tutsi e la maggioranza degli hutu parlano la stessa lingua, il kinyarwanda. Un tempo i tutsi erano pastori e gli hutu agricoltori, e prima ancora probabilmente erano gruppi etnici separati. Oggi però sarebbe più corretto intenderli come caste definite dalle loro precedenti occupazioni. Ma neanche la distinzione tra pastori e agricoltore ha più senso ormai.
Eppure la distinzione di “casta” è ancora forte e potenzialmente letale come nel 1994. È per questo che il Ruanda è una dittatura mascherata a stento, governata da un assassino che però uccide solo singoli individui che minacciano il suo potere, non interi gruppi di persone.
Kagame ha ottenuto uno straordinario tasso di crescita economica in Ruanda (una media dell’otto per cento annuo nel periodo che va dal 2001 al 2012), nella speranza che la prosperità finisse per disinnescare l’ostilità tra tutsi e hutu. Non osa però permettere lo svolgimento di elezioni libere, perché gli hutu, ancora molto attaccati alla loro identità, voterebbero contro di lui. E quasi tutti gli altri accettano il suo comportamento, perché hanno sposato la sua convinzione circa la sua indispensabilità.
Alla fine però i suoi sforzi potrebbero rivelarsi vani. Nel 1994 il Ruanda era già uno dei paesi africani più densamente popolati, e dopo il genocidio la sua popolazione è cresciuta del cinquanta per cento. Non ci sono prove del fatto che tutti (o quanto meno la maggioranza delle persone) si considerino “banyarwanda”. Kagame sta solo cercando di guadagnare tempo.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it