Queste sono le parole rivolte da Viktor Janukovič ad Angela Merkel un anno fa, all’inizio della crisi ucraina e prima che il presidente fosse defenestrato dalle proteste di massa a Kiev. Il dialogo è stato registrato di nascosto da una troupe televisiva lituana con un microfono direzionale, durante il vertice dell’Unione europea a Vilnius in cui Janukovič aveva annunciato che non avrebbe firmato l’accordo di associazione tra l’Unione europea e l’Ucraina.
“La situazione economica in Ucraina è molto difficile e abbiamo grossi problemi con Mosca”, spiegava il presidente alla cancelliera, in russo (lingua che entrambi parlano bene). “Vorrei che mi capisse. Per tre anni e mezzo sono stato lasciato da solo ad affrontare la Russia in uno scontro impari”.
Il presidente ucraino non è stato deposto da un complotto “fascista” come vorrebbe farci credere la propaganda russa, e la Nato non aveva alcuna intenzione di aprire le porte a Kiev (anzi, l’Alleanza atlantica aveva ripetutamente avvisato il precedente governo ucraino, nettamente filoccidentale, che non avrebbe mai accettato l’ingresso del paese). A dodici mesi dall’inizio della crisi è utile ricordarsi come sono andate davvero le cose.
La domanda fondamentale che bisogna porsi davanti a qualsiasi crisi internazionale è una sola: è un complotto o è solo un pasticcio? La crisi ucraina appartiene evidentemente alla seconda categoria. Nessuno l’ha pianificata e nessuno la voleva.
Janukovič ha ereditato la trattativa per un accordo commerciale con l’Unione europea dal governo precedente quando è tornato alla presidenza nel 2010 (nel 2004 aveva truccato le elezioni ed era stato rovesciato dalla “rivoluzione arancione”, ma nel 2010 aveva vinto onestamente seppur con un margine ridotto). Il presidente ha scelto di non far saltare il negoziato nel timore di alienarsi il sostegno di metà del paese, quella occidentale di lingua ucraina.
Quella di Janukovič era una figura tipicamente postsovietica, un uomo profondamente corrotto e avido fino al ridicolo (la sua residenza sulle rive del Dniepr era più che sfarzosa), ma lui era anche un politico competente. La quasi totalità dei suoi voti arrivava dalla parte orientale e meridionale del paese, prevalentemente di lingua russa, però sapeva di non poter ignorare le regioni occidentali.
D’altra parte non poteva nemmeno ignorare Mosca. Il presidente russo Vladimir Putin considerava l’accordo ucraino con l’Unione europea come un pretesto per l’ingresso nella Nato e così ha cercato di convincere Janukovič a entrare nella sua Unione economica eurasiatica (Eeu). La Russia poteva far valere il suo peso economico, perché copriva la maggior parte del fabbisogno energetico dell’Ucraina e assorbiva metà delle esportazioni di Kiev, soprattutto carbone, acciaio e prodotti delle industrie pesanti dell’Ucraina orientale.
Per tre anni Janukovič ha temporeggiato, cercando di ottenere garanzie finanziarie dall’Unione europea per bilanciare la punizione economica che Putin avrebbe inflitto al suo paese una volta firmato il trattato. L’Unione, però, è stata inflessibile: nessun trattamento di favore per l’Ucraina. A Janukovič è stato detto che avrebbe dovuto gestire da solo le rappresaglie della Russia e che il trattato commerciale avrebbe favorito l’Ucraina sul lungo periodo.
Il problema è che i politici vivono a breve termine. Nel 2012-2013 Putin ha operato un giro di vite e il commercio dell’Ucraina con la Russia si è dimezzato. Le esportazioni generavano reddito soprattutto per gli abitanti dell’industrializzata Ucraina orientale, ovvero i principali sostenitori di Janukovič. L’Europa lo aveva lasciato “solo ad affrontare la Russia in uno scontro impari” e così alla fine del 2013 il presidente ha fatto la sua scelta: mandare all’aria la trattativa con l’Unione europea ed entrare nell’Unione euroasiatica di Putin.
Janukovič aveva sicuramente previsto che ci sarebbero state grandi manifestazioni contro di lui a Kiev, dove la popolazione aveva affidato le sue speranze all’associazione con l’Unione europea, ma probabilmente non si aspettava che le proteste sarebbero state alimentate dal goffo ricorso alla violenza delle sue forze di sicurezza e sicuramente non aveva previsto che alla fine sarebbe stato rovesciato. Lo stesso si può dire di Putin, l’uomo che aveva messo Janukovič in quella scomoda posizione.
Il successivo intensificarsi del conflitto – l’annessione della Crimea alla Russia, le rivolte nelle due provincie orientali abitate da importanti minoranze russe, l’intervento diretto dell’esercito russo che ad agosto ha salvato i ribelli dalla sconfitta – nasce dalla volontà di Putin di rimediare all’errore originale.
Non potendo riportare l’Ucraina nella sfera d’influenza di Mosca, la strategia di Putin è paralizzare il paese innescando un conflitto congelato permanente nelle regioni orientali. In termini puramente razionali, per l’Ucraina la scelta migliore sarebbe quella di abbandonare le province di Donetsk e Luhansk, che sono poco più che musei industriali a cielo aperto, e lasciare che sia la Russia a mantenerle.
Kiev però non lo farà, perché gli stati sovrani non cedono mai territori di loro spontanea volontà. Realisticamente la migliore opzione per l’Ucraina è quella di stabilizzare il cessate il fuoco e lasciare che le linee del fronte si congelino e diventino confini de facto, continuando a reclamare le due province. Resta da vedere se Mosca glielo permetterà.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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