Il regime egiziano ha bisogno del terrorismo
Il 15 febbraio i seguaci dello Stato islamico in Libia, che sta emergendo come il principale vincitore nella caotica guerra civile in corso nel paese nordafricano, hanno pubblicato un video che mostrava 21 uomini egiziani in tuta arancione costretti a stendersi a terra e poi decapitati. Nel video si sottolineava che erano stati uccisi perché cristiani, “gente della croce, seguaci della chiesa egiziana ostile”.
Nel giro di poche ore l’aeronautica egiziana ha risposto bombardando dei campi e dei siti di addestramento dello Stato islamico a Derna, il quartier generale del gruppo nella Libia orientale. Annunciando il rientro di tutti i velivoli, le autorità militari egiziane hanno dichiarato: “Chi è lontano e chi è vicino deve sapere che gli egiziani hanno uno scudo che li protegge”. Ma in realtà non li ha protetti, no?
Certo, la critica è ingiusta. Tutti sanno che non è possibile proteggere chi cade nelle mani dei tagliatori di teste jihadisti. L’aviazione è particolarmente inadatta a questo compito, e non si può impedire ai disoccupati egiziani, compresi quelli che fanno parte della minoranza cristiana, di cercare lavoro perfino nella Libia sconvolta dalla guerra. La maggior parte delle vittime proveniva da un poverissimo villaggio cristiano nel nord dell’Egitto, e dovevano provvedere in un modo o nell’altro alle loro famiglie.
Dunque i fanatici dello Stato islamico li hanno uccisi perché uccidere dei cristiani attira reclute provenienti da un determinato gruppo demografico. Poi l’aeronautica egiziana ha sparacchiato senza un vero obiettivo e gli addetti stampa hanno scritto le solite stupidaggini a proposito dell’aviazione che protegge la gente. Fin qui tutto noiosamente normale, ma questa vicenda racconta anche qualcosa del regime militare egiziano.
Ci viene detto di non chiamarlo regime militare. Il colpo di stato dell’esercito (che godeva di un rilevante sostegno popolare) che ha rovesciato il presidente eletto Mohamed Morsi nel luglio del 2013 pare abbia rappresentato solo una breve deviazione dal percorso democratico. Però il comandante delle forze armate, il generale Abdel Fattah al Sisi, è diventato presidente, e le elezioni parlamentari promesse non si sono ancora svolte.
Perché no? La principale giustificazione fornita agli egiziani è che il governo è troppo impegnato a lottare contro un’immane minaccia terroristica. Non si dice che il terrorismo è in gran parte provocato del regime stesso, né che la minaccia non è tanto grave da avallare la sospensione della normale vita politica. Chi osa dire queste cose rischia di entrare tra le 40mila persone arrestate dal luglio del 2013, 16mila delle quali sono ancora in carcere.
Quello che è accaduto in Egitto venti mesi fa è stato un tradimento della rivoluzione democratica del febbraio 2011, quando manifestanti pacifici hanno rovesciato il generale Hosni Mubarak dopo trent’anni di presidenza. Pochi tra i rivoluzionari istruiti di piazza Tahrir appoggiavano la Fratellanza musulmana, ma non si saranno sorpresi più di tanto quando il movimento ha vinto le prime elezioni libere.
Il 90 per cento degli egiziani è musulmano. Si tratta soprattutto di abitanti delle campagne, molto conservatori. Ricordavano che la Fratellanza musulmana aveva rappresentato il principale partito di opposizione in Egitto durante i decenni di dittatura. Condividevano molti dei suoi valori, e molti avevano usufruito dei suoi programmi sociali per i più poveri.
Erano convinti che i Fratelli meritassero una possibilità e li hanno votati. I più secolari sono rimasti sbigottiti quando l’assemblea costituente dominata dalla Fratellanza musulmana ha modificato la costituzione per rafforzarne i contenuti religiosi, nonostante i cambiamenti non fossero poi così estremi. E hanno dimenticato che in una democrazia si può cambiare governo votandogli contro. Bisogna solo aspettare le prossime elezioni.
La vittoria alle prime elezioni dopo la rivoluzione è stata un frutto avvelenato per la Fratellanza musulmana. Il modo in cui gestivano il potere allontanava ogni giorno più persone. L’economia era un disastro (e lo è ancora). La Fratellanza però non stava operando dei cambiamenti irreversibili in Egitto, perciò la strategia giusta era aspettare e votare contro di essa.
Invece gli ingenui e impazienti rivoluzionari hanno deciso di allearsi con l’esercito per rovesciare il governo democraticamente eletto. Pensavano forse che l’esercito, nonostante sessant’anni di dittatori militari in Egitto, fosse un alleato della democrazia? Il generale Al Sisi ha accettato il loro appoggio, ha preso il controllo del governo nel 2013 e ha messo in carcere il presidente Mohamed Morsi. Poco dopo ha cominciato ad arrestare anche i rivoluzionari.
Al Sisi ha bisogno di qualche scusa per distruggere la rivoluzione democratica egiziana. La scusa è il terrorismo, e più grave è meglio è. Ha indicato la Fratellanza musulmana come organizzazione terroristica, e quando decine di migliaia di sostenitori non violenti della Fratellanza hanno allestito un accampamento di protesta in piazza Rabaa, al Cairo, lui lo ha spazzato via con la forza, uccidendo almeno 627 persone secondo le stime del governo.
Human rights watch ha documentato almeno 817 morti, ma sospetta ce ne siano stati almeno un migliaio. Secondo un rapporto di Hrw dello scorso agosto, si è trattato di un attacco premeditato simile o perfino peggiore del massacro dei manifestanti in piazza Tiananmen a Pechino, nel 1989. Come allora, l’obiettivo era costringere il popolo a sottomettersi, ed è stato raggiunto anche in Egitto.
Il terrorismo, reale e immaginario, contribuisce a distrarre l’attenzione in patria e all’estero da quello che è accaduto davvero in Egitto. Anche prima del terribile massacro di egiziani innocenti avvenuto il 15 febbraio in Libia, il congresso statunitense aveva reinserito gli aiuti militari all’Egitto nella bozza del bilancio di quest’anno.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)