La Siria all’ultima spiaggia
La caduta di Ramadi, conquistata dal gruppo jihadista dello Stato islamico il 20 maggio, non è stata una notizia inattesa. La città era all’interno del territorio controllato dai jihadisti, che avevano occupato l’80 per cento della sua area già dallo scorso marzo. L’incapacità militare dell’esercito iracheno, inoltre, era già nota. Nonostante questa vittoria, lo Stato islamico non potrà espandersi ancora molto in Iraq. Le zone del paese che ancora non controlla sono a maggioranza sciita o curda, e non costituiscono terreno fertile per dei fanatici sunniti.
La caduta di Palmyra il 22 maggio, invece, è stata davvero un evento importante, perché è la prova che il morale dell’esercito siriano sta cominciando a vacillare. Fino all’estate scorsa le forze governative sembravano in buono stato e stavano perfino riconquistando territori ai ribelli, ma ora il vento è cambiato. Dopo ogni sconfitta l’esercito cede terreno più facilmente. Forse è già troppo tardi, ma anche nella migliore delle ipotesi il regime siriano è ormai all’ultima spiaggia.
L’esercito siriano è molto stanco e a corto di uomini dopo quattro anni di guerra, ma ciò che davvero sta facendo la differenza è che ora i ribelli si sono uniti in due potenti gruppi invece di essere divisi in decine di formazioni in lotta tra loro. E purtroppo entrambi questi gruppi sono composti da islamisti fanatici.
A marzo il Fronte al nusra ha dovuto combattere duramente per Idlib, la capitale della provincia nordoccidentale, ma ad aprile lo Stato islamico ha incontrato molta meno resistenza quando ha occupato Yarmuk, alla periferia di Damasco. Questo mese Palmyra e i vicini giacimenti di gas, che il governo aveva difeso per mesi nel 2014, sono caduti dopo appena quattro giorni di offensiva.
Non è mai possibile prevedere il momento in cui un esercito in difficoltà andrà in rotta, ma per l’esercito siriano questo momento non è lontano. Se davvero il regime di Assad crollerà, lo Stato islamico e il Fronte al nusra prenderanno il controllo di tutta la Siria. E quello che succederebbe dopo sarebbe davvero molto brutto.
Lo Stato islamico e il Fronte al nusra sono entrambi gruppi tafkiri, secondo i quali i musulmani che non seguono la loro versione radicale dell’islam sunnita sono degli apostati che meritano la morte. In base a questa definizione un quinto degli abitanti della Siria sarebbe composto da apostati: gli alawiti e gli altri sciiti, ma anche le minoranze drusa e cristiana, sono tutti in grave pericolo.
È vero che, rispetto allo Stato islamico, il Fronte al nusra è stato meno esplicito riguardo alle sue intenzioni, ma è solo una questione di tempi e di tattiche. L’ideologia di base è la stessa e, una volta al potere, il Fronte al nusra sarebbe spinto dalle sue convinzioni religiose alla stessa sanguinaria pulizia etnica. Quando dei fanatici religiosi dicono che hanno intenzione di fare una cosa, è meglio prenderli sul serio.
Le due scelte sul tavolo di Barack Obama
La vittoria dei jihadisti in Siria potrebbe significare la morte di milioni di persone e scatenerebbe il panico nei paesi arabi confinanti, il Libano, la Giordania e l’Arabia Saudita. Eppure nessun paese arabo invierà le sue truppe in Siria per fermare il disastro imminente, perché non possono accettare di combattere dei sunniti come loro per salvare il regime sciita di Bashar al Assad.
Anche se sei il presidente dell’unica superpotenza mondiale, non puoi scegliere le opzioni che preferisci, ma solo quelle che sono effettivamente sul tavolo. Allo stato attuale Barack Obama ha solo due opzioni: salvare il regime siriano o lasciare che questo soccomba e accettarne le conseguenze.
Non è neppure sicuro che sia in grado di salvarlo. Non può e non deve inviare truppe statunitensi in territorio siriano, ma potrebbe fornire un sostegno militare ed economico a Damasco e soprattutto mettere l’aviazione statunitense al servizio dell’esercito siriano.
Anche questo potrebbe non essere abbastanza per salvare Assad, ma aiuterebbe sicuramente il morale dell’esercito e i due terzi della popolazione che vivono nelle aree sotto il controllo del governo. Con un equipaggiamento migliore e l’appoggio dell’aviazione statunitense, l’esercito siriano potrebbe riprendere fiato e rimettersi in sesto. Sarebbe una scommessa azzardata, e Obama si alienerebbe le simpatie di due importanti alleati come la Turchia e l’Arabia Saudita. Ma in caso contrario le conseguenze potrebbero essere davvero orribili.
Gli aerei statunitensi stanno già bombardando lo Stato islamico (e, di fatto, anche il Fronte al nusra) in tutto il nord della Siria, ma non hanno bombardato le truppe dello Stato islamico che stavano attaccando Palmyra. È stata una decisione intenzionale e non una svista, anche se Palmyra probabilmente non sarebbe caduta se Obama avesse scelto di difenderla.
Il presidente statunitense non l’ha fatto perché nutre ancora la fantasia che la “terza forza” addestrata dagli Stati Uniti sconfiggerà lo Stato islamico e il regime di Assad nel giro di un paio d’anni. Aiutare il regime siriano è una scelta molto difficile, perché è una dittatura brutale il cui unico lato positivo è che non intende commettere un genocidio e non minaccia tutti i paesi vicini.
Probabilmente gli Stati Uniti non hanno più di un paio di mesi per accettare la realtà e prendere una decisione. Aspettare che il regime siriano crolli prima di intervenire non è una buona idea. È arrivato il momento di decidere. La riluttanza di Obama è comprensibile, ma salvare Assad è il male minore.
(Traduzione di Federico Ferrone)