Giochi di guerra nel mar Cinese meridionale

“Se la condizione posta dagli Stati Uniti è il blocco delle attività da parte della Cina, allora una guerra tra Washington e Pechino nel mar Cinese meridionale sarà inevitabile”, si leggeva in un editoriale pubblicato sul Global Times la scorsa settimana. Il Global Times è un quotidiano in inglese specializzato in questioni di politica estera pubblicato dal Quotidiano del Popolo, il giornale ufficiale del governo cinese. In teoria, dunque, ciò che dice dovrebbe essere preso sul serio.

Ma una guerra tra Stati Uniti e Cina nel mar Cinese meridionale è davvero alle porte? Un conflitto per una manciata di atolli corallini semisommersi e i diritti di pesca e di estrazione mineraria che potrebbero spettare a Pechino se riuscirà a obbligare o convincere gli altri contendenti a rinunciare alle loro rivendicazioni? Il pil degli Stati Uniti è di 16,8 trilioni di dollari, quello della Cina è di 9,2 trilioni di dollari. Complessivamente, le risorse nel mar Cinese meridionale non produrrebbero un trilione di dollari neanche in cinquant’anni di sfruttamento.

Le grandi potenze finiscono per combattere grandi guerre. Tenuto conto di una corsa agli armamenti precedente alla guerra, delle perdite dovute al conflitto (anche escludendo che si arrivi a un conflitto nucleare) e di una nuova corsa agli armamenti successiva alla guerra, il costo nel lungo periodo di una guerra tra Stati Uniti e Cina per il mar Cinese meridionale potrebbe raggiungere tranquillamente i cinque trilioni di dollari. Siamo sicuri che sia una buona idea?

Eppure le cose stupide accadono. Prendiamo l’esempio della guerra delle Falkland/Malvinas. Nel 1982, Regno Unito e Argentina combatterono una piccola ma cruenta guerra, in cui morirono più di novecento persone e furono affondate delle navi, per un paio di isole nell’Atlantico meridionale che non avevano un grosso valore strategico o economico.

Forse questo esempio non è pertinente. Dopo tutto l’Argentina non era mai stata una grande potenza, e nel 1982 neppure il Regno Unito lo era più. La guerra delle Falkland fu, come ebbe a dire lo scrittore argentino Jorge Louis Borges, “una lite tra due calvi che si contendono un pettine”. Eppure questo precedente è piuttosto preoccupante. Non aveva alcun senso dal punto di vista strategico o economico, ma i due paesi si scontrarono comunque.

Consideriamo la questione da un altro punto di vista. Chi è il messaggero che reca notizie così allarmanti su una guerra tra Stati Uniti e Cina? Il Global Times, nonostante sia pubblicato dal governo comunista cinese, è un tabloid paragonabile al New York Post o al Daily Mail: dozzinale, sensazionalistico e non molto affidabile.

Tuttavia non ha mai pubblicato nulla che andasse contro i voleri delle autorità cinesi. Perciò la domanda è: perché le autorità cinesi hanno voluto che questa storia fosse pubblicata? Si potrebbe supporre che lo scopo fosse spaventare gli Stati Uniti al punto da indurli a non mettere più in discussione le rivendicazioni cinesi nel mar Cinese meridionale.

Pechino è davvero disposta ad andare in guerra se gli Stati Uniti non la smetteranno di sorvolare le isole contese e di compiere altre attività che mettono in discussione le sue rivendicazioni? È probabile che nemmeno i vertici del Partito comunista cinese sappiano rispondere a questa domanda. Sono però fermamente determinati a controllare il mar Cinese meridionale, e gli Stati Uniti e i loro alleati regionali (Filippine, Vietnam, Malesia, Brunei e Taiwan) non sono assolutamente intenzionati ad accettarlo.

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Le rivendicazioni cinesi sono davvero sfacciate. Secondo la “linea a nove tratti”, una cartina ufficiale pubblicata dal governo di Pechino nel 1949, in pratica tutte le barriere coralline non abitate e gli isolotti di quel tratto di mare poco profondo sono territorio cinese, perfino quelli che distano 700 chilometri dalla costa cinese e solo 150 da quella delle Filippine o del Vietnam.

Poiché tutte le isole possono giustificare l’istituzione di una zona economica esclusiva di 300 chilometri, la Cina potrebbe avere in mente di accampare diritti fino a una media di cento chilometri di distanza dalle coste di altri paesi bagnati dal mar Cinese meridionale. I dettagli di queste rivendicazioni non sono stati ancora resi noti, ma Pechino sta investendo molto per porne le basi.

È un po’ come se gli Stati Uniti costruissero delle isole artificiali nel golfo del Messico, le rivendicassero come loro territorio sovrano e poi dicessero che tutto il mar dei Caraibi appartiene a loro, tranne sottili fasce costiere per Cuba, Messico, Venezuela e gli altri paesi costieri.

Nell’ambito di questa strategia, la Cina sta davvero costruendo delle isole, innalzando le barriere coralline con enormi quantità di sabbia, roccia e cemento per trasformarle in luoghi (appena) abitabili. Poi ostenta stupore e offesa quando altri paesi mettono in discussione questo comportamento o mandano voli di ricognizione per vedere cosa sta succedendo.

Le velate minacce e le spacconate che accompagnano questo processo servono da avvertimento per tutti gli altri contendenti affinché ritirino le loro rivendicazioni. È una situazione che va avanti da anni e che si sta aggravando sempre di più man mano che il progetto cinese di costruire basi militari in tutto il mar Cinese meridionale si va completando. Ed ecco che la retorica sale di livello e si spinge fino a minacciare esplicitamente una guerra tra Cina e Stati Uniti.

Il Global Times ha ragione, a prescindere da quanto i suoi giornalisti ne siano consapevoli. Se la Cina continuerà ad agire come se le sue rivendicazioni fossero accettate da tutti e ad ampliare le barriere coralline per creare basi con piste d’atterraggio e porti, e gli Stati Uniti e le potenze locali continueranno a sfidare le rivendicazioni cinesi, potrebbe davvero scoppiare una guerra. Tra qualche tempo, non subito e non necessariamente, ma potrebbe succedere.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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