“Abbiamo capito che era un atto di responsabilità scegliere la sopravvivenza invece del suicidio”, ha dichiarato il primo ministro greco Alexis Tspiras lo scorso luglio, nel difendere la sua decisione di non ribellarsi più alle dure condizioni imposte dall’Unione europea per il salvataggio dell’economia greca. Doveva farlo, poiché alla fine ha accettato condizioni anche più dure. A volte tenere un atteggiamento di sfida a tutti i costi è un errore.
Se Tsipras sapeva già che avrebbe finito per perdere la sua battaglia da Davide contro Golia con i creditori, perché non ha negoziato prima condizioni migliori? Se invece non se n’era reso conto, a cosa stava pensando mentre era primo ministro? Ecco che la testa calda che ha messo sottosopra la politica greca appare un po’ come uno zombi.
A metà agosto, quando ha indetto le elezioni anticipate che si terranno il 20 settembre, Tsipras era ancora forte del successo ottenuto con il “no” all’austerità che gli elettori greci avevano decretato nel referendum di luglio, e i sondaggi mostravano un sostegno del 42 per cento per Syriza, il suo partito. Perlomeno Tsipras si era opposto ai perfidi tedeschi e ai loro ricchi alleati nell’Unione, anche se questo aveva significato la chiusura delle banche per tre settimane e il crollo dell’economia.
Ma molti greci, passata la sbornia, ci stanno ripensando. La donchisciottesca battaglia di Tsipras contro l’Unione europea ha affossato quello che stava cominciando ad apparire come un modesto accenno di crescita nell’economia greca, e oggi gli analisti prevedono un ulteriore declino, fino al quattro per cento, del pil greco quest’anno. La disoccupazione è ancora al 25 per cento (il 50 per cento tra i giovani). Valeva la pena fare tutto quello che è stato fatto?
Come molti greci, Tsipras vuole la botte piena e la moglie ubriaca
Forse no, ed è possibile che questo pensiero abbia attraversato anche la mente di Alexis Tsipras. Di sicuro è apparso molto sottotono durante il dibattito con Vangelis Meimarakis del 14 settembre, leader del partito Nea dimokratia, e aveva buoni motivi per esserlo.
Nelle ultime sei settimane il partito di Tsipras, Syriza, si è diviso, e 25 dei suoi deputati sono andati a formare il nuovo partito Unità popolare (Lea). Lo accusano di aver accettato l’austerità e vogliono che la Grecia lasci l’euro. Hanno sottratto molti elettori a Syrizia. E così oggi il partito di centrodestra Nea dimokratia e Syriza si ritrovano testa a testa nei sondaggi, ad appena un punto percentuale di distanza.
Quel punto percentuale ha un grande significato, poiché nelle elezioni greche il partito che ottiene il maggior numero di seggi riceve, come premio, altri cinquanta seggi. Ma anche se quel partito dovesse essere Syrizia, sarà comunque molto difficile formare un nuovo governo dopo le elezioni di domenica.
Nel corso dell’ultimo dibattito, Tsipras ha respinto l’appello di Vangelis Meimarakis per un’ampia coalizione, affermando che per il suo partito e per Nea dimokratia sarebbe “innaturale” governare insieme. È difficile capire cosa ci sarebbe di innaturale, visto l’accordo che ha firmato con l’Ue, ma si vede che Tsipras si ostina a non voler ammettere ciò che ha fatto.
Come molti greci, forse la maggioranza, Tsipras vuole la botte piena e la moglie ubriaca. Vuole restare nell’euro, poiché prevede che la Grecia dovrebbe uscire dall’Unione europea se tornasse alla sua vecchia valuta, la dracma. Tecnicamente questo non è inevitabile, ma molti greci pensano che sia molto probabile e vogliono assolutamente restare nell’Unione.
Ma né Tsipras né gli elettori greci vogliono vivere in un’austerità perpetua, e questo probabilmente sarebbe il prezzo da pagare per rimanere nell’euro. In genere i paesi che, come la Grecia, hanno accumulato enormi debiti con l’estero, affrontano il problema svalutando la loro moneta. Ma Atene non ha nessuna possibilità di svalutare l’euro.
È sempre meno probabile che sarà Alex Tsipras il primo ministro a cui toccherà negoziare un nuovo accordo
C’è un modo, naturalmente, per risolvere questo dilemma: convincere i creditori ad “alleggerire” il debito. Se i creditori accettassero di dimezzare la somma che Atene gli deve, il paese riuscirebbe a ripagare il debito residuo ma anche a rilanciare la sua economia. A dire il vero è esattamente quello che il mese scorso Christine Lagarde, la direttrice del Fondo monetario internazionale (Fmi), ha detto ai ministri delle finanze dell’eurozona.
“Rimango fortemente convinta dell’idea che il debito della Grecia sia ormai insostenibile”, ha affermato (il debito si avvia verso il duecento per cento del pil). E ha invitato l’Unione europea a prendere “impegni concreti per fornire un significativo alleggerimento del debito, molto più consistente di quello immaginato finora”.
I paesi ricchi dell’eurozona non vogliono farlo, poiché altri paesi dell’Unione fortemente indebitati chiederebbero lo stesso trattamento. Se non andranno incontro ad Atenea, tuttavia, l’Fmi non parteciperà al piano di salvataggio da 86 miliardi di euro del governo e delle banche greche.
Se l’Fmi non parteciperà all’operazione, molti parlamenti europei (in particolare quello tedesco) potrebbero non ratificare l’accordo, i cui dettagli finali saranno definiti il mese prossimo. Ma è probabile che alla fine si troverà una soluzione, molto probabilmente dando alla Grecia un lunghissimo periodo di grazia, di circa trent’anni, durante il quale dovrà pagare solo gli interessi su un’ampia parte del suo debito.
Tuttavia è sempre meno probabile che sarà Alex Tsipras il primo ministro a cui toccherà negoziare questo accordo. Eppure si potrebbe sostenere che sono stati proprio il suo atteggiamento di sfida e la sua politica del rischio calcolato a spingere i creditori della Grecia a prenderlo anche solo in considerazione.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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