Come salvare la democrazia, quando il lavoro non c’è
Se un modello non funziona, è meglio cercare di ripararlo o comprarne uno nuovo? Nel settore della tecnologia, sempre più spesso la risposta è comprarne uno nuovo. I negozi specializzati nella riparazione di computer stanno scomparendo. Se il portatile non funziona, tanto vale sbarazzarsene. Ma ciò che va bene per la tecnologia non è necessariamente adatto alla politica.
Il modello politico della democrazia occidentale, cresciuto a fianco e poi all’interno dell’economia capitalistica, è rotto. La prima prova a sostegno di questa tesi è sicuramente Donald Trump, ma ce ne sono altre.
Alle presidenziali dell’anno scorso un terzo degli elettori francesi ha votato per Marine Le Pen, una fascista ripulita. Alle elezioni tedesche di settembre un ottavo dell’elettorato ha votato per Alternative für Deutschland (Afd, Alternativa per la Germania), un partito la cui ala più estrema è chiaramente neonazista e che oggi guida l’opposizione al Bundestag, il parlamento tedesco. Il mese scorso, in Italia, i due partiti che hanno ottenuto il maggior successo alle elezioni sono entrambi guidati da agitatori populisti. Per non parlare della Brexit nel Regno Unito. I temi che hanno dominato la retorica populista sono stati il razzismo, il nazionalismo, l’ostilità nei confronti degli immigrati e il lavoro.
Disoccupazione di massa
Durante la campagna elettorale Trump non ha sostanzialmente parlato d’altro: gli immigrati rubano il lavoro, gli imprenditori americani paladini del libero mercato esportano i posti di lavoro, gli stranieri stanno rubando la merenda all’America. Abbasso il libero mercato! Prima l’America! Eccetera eccetera (una piccola precisazione: Donald Trump non è un repubblicano. Donald Trump è un populista).
Trump non sa molto, ma una cosa importante la sa di certo: viviamo in un’epoca segnata dalla disoccupazione di massa e nessuno sembra essersene accorto. Come ha sottolineato il presidente statunitense all’indomani della vittoria alle primarie in New Hampshire nel febbraio 2016, “non credete ai numeri falsi che vi propinano. Parlano di disoccupazione al 4,9 o 5 per cento. La percentuale reale è probabilmente del 28, 29 o addirittura del 35 per cento. Di recente ho sentito parlare del 42 per cento”.
La disoccupazione non è sicuramente al 42 per cento, ma nemmeno al 4,1 per cento (dato ufficiale attuale negli Stati Uniti). Secondo Men without work di Nicholas Eberstadt, il reale tasso di disoccupazione tra gli uomini americani nel pieno dell’età lavorativa (24-55 anni), compresi tutti quelli che non sono conteggiati perché hanno smesso di cercare lavoro, è del 17 per cento.
È ragionevole pensare che metà dei posti di lavoro attuali saranno automatizzati nei prossimi vent’anni
Perché non ce ne siamo accorti? Perché i disoccupati non protestano in piazza come hanno fatto durante la grande depressione degli anni trenta, anche se il tasso di disoccupazione si sta avvicinando a quei livelli. Dopo la seconda guerra mondiale tutte le democrazie hanno costruito stati assistenziali soprattutto per evitare che una generazione futura di populisti radicali conquistasse il potere in caso di una nuova fase di disoccupazione di massa.
Ha funzionato, nel senso che questa volta non c’è sangue per le strade. Ma i milioni di disoccupati sono infuriati, anche se l’assistenza sociale evita che patiscano la fame. Sono persone che votano e – a meno che non si faccia qualcosa per smorzare la loro rabbia – la prossima volta potrebbero eleggere qualcuno che farà sembrare Trump un grande politico.
Il problema, dunque, è la disoccupazione. Ma la risposta non è ovvia, perché la principale causa di disoccupazione nei paesi occidentali non è l’immigrazione né la delocalizzazione dei posti di lavoro, come sostiene Trump. La causa principale sono i computer.
Un terzo dei posti di lavoro nel settore manifatturiero americano è scomparso negli ultimi vent’anni, e la gran parte di questi (85 per cento) è stata distrutta dall’automazione. Gli algoritmi e i macchinari hanno già ucciso la rust belt (gli ex stati industriali) ed è ragionevole pensare che metà dei posti di lavoro attuali sarà automatizzata nei prossimi vent’anni.
Come apparirà la politica in quel momento? Probabilmente non molto democratica, a meno che non si trovi una soluzione per ridurre la furia dei disoccupati. Questo non significa solo dare più soldi a chi non lavora (con un’enorme espansione dello stato sociale) ma anche trovare il modo di cancellare la vergogna legata alla mancanza di un posto di lavoro, perché a produrre la rabbia è proprio l’umiliazione di essere considerati perdenti.
Il problema giusto
La principale proposta attualmente al vaglio è il reddito di base universale, o reddito di cittadinanza. Con la sua introduzione, ogni cittadino riceverebbe abbastanza denaro per vivere dignitosamente a prescindere dall’avere o meno un posto di lavoro, anche se la maggior parte della gente continuerebbe a lavorare per avere più denaro. Rendere questo reddito universale significa cancellare la vergogna e la rabbia. Sarebbe un diritto di nascita, non un gesto di carità nei confronti di chi ha perso il lavoro.
Nella pratica potrebbe non funzionare, ma almeno affronta il problema giusto. Inoltre c’è denaro a sufficienza per seguire questo approccio.
Quale che sia la soluzione, deve rispettare due criteri: mettere soldi in tasca a chi non lavora (il che è nell’interesse di proprietari e manager, il cui modello imprenditoriale non può funzionare se i consumatori non hanno denaro da spendere per comprare i loro prodotti e servizi) e farlo senza creare umiliazione, risentimenti e radicalismo.
Qualcuno potrebbe sostenere che in questo modo si salva il capitalismo, non lo si distrugge. È vero, ma l’evoluzione è sempre meglio della rivoluzione. Riparare un modello rotto, sostanzialmente attraverso una grande espansione dello stato sociale, è sicuramente meglio che buttarlo via.
(Traduzione di Andrea Sparacino)