Il vertice si farà, anzi no. Anzi forse sì, in qualche modo si farà. Ogni nuovo giorno è un’esibizione di dilettantismo alla Casa Bianca e il destino del vertice tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord, previsto per il 12 giugno a Singapore, sarà deciso dalla monetina che Donald Trump lancia in aria tutti i giorni: se esce testa per tre giorni di fila significa sì, se esce croce per tre giorni consecutivi il vertice non si farà.
E quindi non perdiamo tempo a speculare sull’imponderabile. Limitiamoci a immaginare che l’incontro fra Trump e il leader coreano Kim Jong-un alla fine si faccia. Quale potrebbe essere un esito positivo che rimanga nei limiti della verosimiglianza?
Un esito che eviti una guerra nucleare, ovviamente. Ma è altrettanto evidente che nessuna delle due parti rinuncerà alle armi atomiche. Gli Stati Uniti, in quanto primo paese a costruire bombe nucleari e l’unico ad averle mai usate, considera suo diritto inalienabile il fatto di possederne alcune migliaia e non accetterebbe mai di rinunciarvi. Il regime nordcoreano ne possiede solo alcune, ma le considera la sua unica vera garanzia di sopravvivenza.
Però le cose sono anche un po’ diverse, poiché la Corea del Nord era già sopravvissuta per 57 anni prima di testare i suoi primi dispositivi esplosivi nucleari, nel 2006. È passata un’altra dozzina d’anni prima che potesse costruire un piccolissimo ma teoricamente efficace arsenale di missili balistici nucleari in grado, con un po’ di fortuna e di vento a favore, di raggiungere gli Stati Uniti. È solo da poco che Pyongyang ha ottenuto dei deterrenti contro Washington. Che cosa l’ha protetta finora?
Fino al 2017 a fungere da deterrente in suo favore era un enorme esercito (di dimensioni doppie rispetto a quello sudcoreano e alle truppe statunitensi di stanza in Corea del Sud messe insieme) e la capacità di poter distruggere Seoul in uno o due giorni usando semplicemente l’artiglieria convenzionale e dei razzi.
La periferia nord di Seoul è ad appena cinquanta chilometri dal confine con la Corea del Nord, pienamente alla portata di migliaia di pezzi d’artiglieria di Pyongyang. In quest’area metropolitana vive la metà dei cinquanta milioni di abitanti della Corea del Sud. Essendo la capitale, contiene quasi tutti i ministeri e i quartieri generali dell’esercito. Neppure le armi nucleari statunitensi potrebbero salvarla dalla distruzione in caso di una guerra con il nord.
Dimentichiamoci quindi delle armi nucleari, a disposizione di entrambi gli schieramenti, e concentriamoci sull’equilibrio tradizionale. La Corea del Sud ha una popolazione doppia rispetto al Nord, ma appena la metà dei soldati in servizio attivo, poiché Seoul preferisce risparmiare fondi e affidarsi alla deterrenza nucleare (fornita dagli Stati Uniti). Adesso che la Corea del Nord possiede armi nucleari proprie, può permettersi anch’essa di ridurre il suo esercito almeno di metà. La realtà, anzi, è che non può permettersi di non farlo.
Moneta di scambio
Kim Jong-un trarrebbe grandi vantaggi se il vertice si svolgesse. Il semplice fatto di sedersi accanto al presidente degli Stati Uniti, da pari a pari, gli darebbe la legittimità internazionale che hanno cercato invano suo padre e suo nonno. Se ottenesse anche la promessa che gli statunitensi non cercheranno di rovesciarlo e una sospensione delle sanzioni economiche da parte di Washington, il suo successo sarebbe totale. Ma cosa potrebbe offrire in cambio agli Stati Uniti e alla Corea del Sud?
Kim ha già sospeso unilateralmente sia i test bellici nucleari sia ulteriori test balistici missilistici, con l’obiettivo di far sedere Trump al tavolo delle trattative, ma deve fare altre concessioni se vuole ottenere quello a cui ancora mira. Che ne direste di un accordo con il quale s’impegna a ridurre l’esercito nordcoreano agli stessi livelli di quello sudcoreano? O l’accordo, da entrambe le parti, di spostare le proprie artiglierie di almeno cinquanta chilometri verso l’entroterra rispetto al confine tra le due Coree?
Asimmetria ed equilibrio
Un patto del genere farebbe risparmiare a Kim un sacco di denaro senza esporlo ad altri gravi rischi: è la sua polizia segreta, e non l’esercito, a far regnare la disciplina tra i suoi concittadini. La Corea del Sud non sarebbe comunque in grado di attaccare il nord, e la stessa capacità di Kim di minacciare Seoul con un “mare di fuoco” svanirebbe poiché dovrebbe prima spostare la sua artiglieria verso la zona di confine, vicino a strade totalmente esposte alle forze aeree di Stati Uniti e Corea del Sud.
Trump ha bisogno di un trionfo diplomatico che nutra il suo ego e magari gli dia il Nobel per la pace
È così che si configurano nella realtà gli accordi diplomatici di successo. Spesso sono asimmetrici in alcuni dettagli, ma sono perlopiù equilibrati nel loro complesso e danno a entrambe le parti ciò di cui hanno davvero bisogno.
Nel caso di Trump, ha bisogno di un trionfo diplomatico che nutra il suo ego e magari gli dia il premio Nobel per la pace, offrendogli al contempo una scusa plausibile per non insistere sull’obiettivo impossibile di eliminare il rudimentale arsenale di armi chimiche e missili balistici nordcoreani.
Kim può permettersi di fargli ulteriori concessioni su altre questioni militari, poiché perfino il 10 per cento di possibilità che un missile balistico nordcoreano faccia cadere un’arma nucleare su una città degli Stati Uniti è un deterrente sufficiente a evitare qualsiasi intervento di Washington in Corea del Nord. Quest’ultima, in cambio, otterrebbe la fine delle sanzioni ed enormi risparmi per le sue gravose spese militari.
Non c’è niente di sicuro, ma tutto questo potrebbe effettivamente succedere. E se Kim e Trump dovessero ottenere il Nobel per la pace, sarebbe forse un problema? In fondo il premio è nato come una ricompensa per santi, ma funziona anche come esca per mascalzoni.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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